Domenica 5 aprile, di ritorno a casa da un’indimenticabile pomeridiana teatrale a Roma – Albertazzi al Ghione – ero pronto a partire per far visita a mia madre, nella cui dimora aquilana alla "Fontana Luminosa" un mio pianoforte stanzia pazientemente chiedendomi di non essere ignorato troppo a lungo. Decisi di ritardare la partenza. Il giorno dopo, lunedì 6 aprile, mi sarei nuovamente immerso per alcune ore in quel piccolo spazio in cui il pianista studia tantissimo per poter fare il pianista. Nell’appartamento dei miei genitori ho speso le innumerevoli ore indispensabili a forgiare la mia attuale professione, lì ho preparato gran parte dei miei concerti e incisioni discografiche e, quando vi facevo ritorno, mi ritrovavo magicamente immerso in un’atmosfera di introspezione e produttività. Quel lunedì 6 aprile avrei ripreso a studiare alle nove di mattina e, dalla finestra alla mia sinistra, si sarebbero nuovamente stagliate le immagini di tetti antichi, visitati dai molti uccelli che tradizionalmente e stagionalmente abitavano la città; quei tetti erano lo sfondo per le innumerevoli ore trascorse alla tastiera del mio pianoforte, il pezzo di “mobilio” che più testardamente ha resistito alla fatale scossa che ha ridotto invece in macerie parte di quello sfondo magico, stroncando i destini di chi viveva in quelle dimore: tanto fragili quanto inviolabilmente forti, invece, rimangono le alte montagne che tutt’intorno incorniciano la vallata in cui sorge la cittadina.
Essere aquilano, sembra un paradosso sociologico, comporta un’identità che si incarna soprattutto nel luogo e nella sua specifica, raffinata e articolata architettura urbana, nelle tradizioni che a questo luogo sono ancorate in una memoria collettiva.
L’aquilanità è soprattutto il modus vivendi che questo palcoscenico cittadino sollecita grazie alle sue caratteristiche, che vengono vissute frontalmente, quotidianamente dai suoi abitanti; l’aquilano conosce la sua città metro per metro, ogni piccolo spazio è un microcosmo e una storia cui il singolo è raramente estraneo. Non c’è zona che non sia memore di una situazione, per quanto banale o transitoria, oppure di un ricordo intenso, esaltante o doloroso.
I ”Quattro Cantoni”, “Capo Piazza” e “Pie' di Piazza” – gangli sociali e fondamentali punti di ritrovo - i “Portici” (ognuna delle cui colonne si potrebbe numerare e intitolare al gruppo particolare di ragazzotti che vi si appoggiavano, i cui interessi comuni davano letteralmente il nome alla colonna), e così via, con un catalogo lunghissimo di nomi, luoghi, lontani pochi metri l’uno dall’altro ma che rappresentavano per noi aquilani un viaggio attraverso il “corpo” della città: le sue “membra” erano cariche di metafora e storia. Erano i luoghi dell’anima.
Quando si cresce in un piccolo centro denso di particolari e di arte si è facilmente inclini a soffermarsi ossessivamente sul dettaglio; così le cose “diventano tristi e complicate”, fa dire Thomas Mann al suo Tonio Kroeger, ma il cittadino diventa artista del luogo che abita e non riuscirà a far meno della dimensione intima e riflessiva che la sua città natìa ha rappresentato da sempre, che continuerà a far sentire il suo richiamo per la vita.
Una città al contempo ricca di storia, dal medioevo ad oggi, incuneata in uno scenario e una cultura montani, è molto singolare, difficile da immaginare, in verità.
Queste due componenti di italiana provincialità e cultura da montanari contribuiscono a rendere l’aquilano orgoglioso, schivo e autosufficiente, ma anche generoso e aperto alla solidarietà della “cordata” e della condivisione, che diventa imbattibile soprattutto quando si è costretti a fronteggiare l’invincibile violenza della natura. La dignità con cui i miei concittadini stanno affrontando queste durissime ore è quella che incontri nelle culture montane, la loro compostezza e reciproca empatia è quella di chi si ristora nell’intimità e serenità del rifugio, che si rinfranca narrando con enfasi le gesta delle proprie avventure e che gradisce il clima freddo perché fa venir voglia di riscaldare l’ambiente – e con questo il cuore degli amici - col calore del camino acceso, ma soprattutto del proprio affetto. Quando a questo sostrato di cultura locale si aggiungono le grandi operazioni di diffusione culturale ed educativa (fra cui la musica classica), una grande attenzione alla tradizione e qualità gastronomica, all’autostima cittadina derivante da un grande amore per la città, alla cui bellezza architettonica si è voluto partecipare attraverso varie generazioni di famiglie, patrizie e non, a parte le scellerate speculazioni edilizie che finalmente non tarderanno ad assurgere agli onori di una cronaca vergognosa, si ha una qualche idea di cosa fosse – e sarà di nuovo, mi auguro davvero molto presto – L’Aquila.
Per gli amici "...bella me".
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