di MARIO AGOSTINELLI
Quato articolo è stato pubblicato dal numero di settembre della rivista Inchiesta.
Introduzione
Il concetto di conversione richiama la categoria del
comportamento e le convinzioni essenziali a cui si ispira la coscienza
individuale e/o sociale. E’ parola a dimensione prevalentemente etica,
che riguarda innanzitutto la sfera personale e indica, anche
metaforicamente, il percorso cosciente di un cammino altro da quello
precedentemente compiuto. Quando invece parliamo di riconversione
e la associamo, come in genere accade, alla produzione di merci o
servizi, indichiamo per lo più una decisione presa nella sfera
economica – e talvolta politica - per destinare a nuove finalità delle
attività ritenute in qualche modo esaurite, o non più “convenienti”, o,
addirittura, non più compatibili con l’evoluzione della situazione di
cui hanno fatto parte.
In effetti, queste definizioni sono fornite qui in forma
approssimativa, ma mi servono per fornire la “cifra” della crisi più
profonda e più complessa che la modernità abbia fin qui affrontato.
Davanti alla minaccia di sopravvivenza della biosfera , alla crisi
autentica di civiltà e all’incapacità di alimentare il meccanismo di
crescita sviluppato e portato al parossismo dalla dittatura di un potere
finanziario avverso alla democrazia, conversione e riconversione
avvicinano i loro campi di azione: nel dibattito in corso tutti
convengono che non sarebbe possibile una efficace alternativa economica e
politica al meccanismo economico distruttivo in atto senza una profonda
revisione dei comportamenti, del rapporto uomo-natura, della finalità
sociale, “extraeconomica” del lavoro.
La “conversione ecologica”, che ho avuto l’occasione di apprendere
da Alex Langer quando già era in corso la mia esperienza sindacale,
comunicando così lungo un crinale che allora sembrava dover mantenere
separati due mondi, oggi rimanda obbligatoriamente sia alla dimensione
personale e soggettiva delle trasformazioni proposte, sia alla loro
dimensione oggettiva e sociale (dai nuovi prodotti, ai nuovi rapporti di
mercato e di cooperazione, alla nuova organizzazione del lavoro).
E, a sua volta, la riconversione produttiva non può più prescindere
dalla sua desiderabilità sociale e ambientale. Lungo questo percorso, è
stato soprattutto Wolfgang Sachs negli anni ’90 a chiarire come
giustizia sociale e giustizia ambientale dovessero ricongiungersi
inevitabilmente. E a dieci anni da Porto Alegre e da Genova, il
movimento può ormai far propria una lettura organica delle ragioni della
crisi in corso e della sua irreversibilità, che riguardano una serie di
rotture e conflitti oltre quello tradizionale- pur sempre determinante
– tra capitale e lavoro e che hanno ormai conquistato la parte più
avanzata delle organizzazioni dei lavoratori.
Per l’ambito che riguarda queste note, ciò comporta di riportare,
tanto in sede locale e nazionale, quanto in campo continentale e
planetario, il sistema produttivo entro un quadro di sostenibilità
imposto dai limiti fisici e biologici del pianeta in cui viviamo,
salvaguardando, potenziando e qualificando l’occupazione e valorizzando
la dotazione di tecnologia, di impianti e di conoscenze dell’apparato
industriale e produttivo esistente, fino a farne il punto di partenza di
una riconversione votata sì alla discontinuità, ma gestita
democraticamente.
Si può finalmente aprire un dibattito nel Paese sulla mancanza di una
politica industriale e sul declino del nostro sistema produttivo, che
riproduce condizioni di lavoro dequalificate, perde posizioni nella
competitività internazionale, è fonte primaria di una precarizzazione
che investe l’intera esistenza e alimenta un sistema di consumi e uno
spreco di risorse naturali che pregiudicano la salute e le possibilità
di vita delle prossime generazioni. Si può partire da una coscienza
individuale diffusa che percepisce il cambiamento in modo diverso dal
passato e non più progressivo e che esige perciò valori e priorità da
ridefinire. Si può tener conto di come il territorio, all’esperienza
lavorativa, sia fonte di constatazione dell’inadeguatezza di una
crescita che non redistribuisce ricchezza e spreca lavoro e natura. Si
può, infine, considerare l’attuale sconfitta del sindacato come la
perdita di rappresentanza e di potere all’interno di un conflitto a cui
la politica, aderendo in blocco all’ideologia neoliberista, non
riconosce più centralità. Ma proprio riconnettendo individui,
produzione, territorio e organizzazione, si può prendere atto della
crisi dell’attuale modello di sviluppo e dei danni sociali e ambientali
da riparare, per suggerire come percorso di lotta indispensabile quello
di una diffusa riconversione industriale e di una nuova organizzazione
del modo di vivere e di consumare nel territorio.
Una proposta in tal senso può trovare così un punto di iniziale
agglutinazione nel lavoro di elaborazione intorno all’obiettivo della
riconversione dell’apparato produttivo: a livello sia locale –
soprattutto nei punti di maggior crisi occupazionale – che regionale,
nazionale e planetario (agire localmente, ma pensare globalmente).
Riguarda sia il fronte del lavoro e della produzione che quello del
consumo e della distribuzione, oltreché, ovviamente, quello di una
cultura condivisa che tenga tutto insieme. Ha poi il vantaggio di
mettere alla prova o di far maturare le conoscenze che ogni gruppo ha
del proprio territorio di riferimento e di chi ci vive e ci lavora e
offre il vantaggio – e il rischio – di mettere a confronto i saperi
acquisiti con le urgenze del mondo del lavoro – le fabbriche che
chiudono, o che chiedono di sopravvivere sussidiando produzioni
insostenibili, il mondo dell’impresa, quello del terzo settore, ma
anche il mondo agricolo e della piccola distribuzione – e le
amministrazioni locali.
Se si riflette sulla molteplicità di lotte in corso, saperi tecnico
scientifici, conoscenze del territorio e buone pratiche sono già il
punto di forza delle esperienze di autorganizzazione più rilevanti degli
ultimi anni: sia nei confronti di esperienze passate (per esempio nei
confronti del ’68), sia nei confronti degli avversari con cui ci si
confronta oggi. Valga per tutti l’esempio della Valle di Susa: ma così è
un po’ in tutti i campi (energia, trasporto, agricoltura,
alimentazione, urbanistica, educazione, gestione rifiuti, mobilità,
salute). Di conseguenza, sulla valorizzazione di saperi, conoscenze e
buone pratiche e sull’innesco diretto con le rivendicazioni territoriali
e del mondo del lavoro può essere a mio avviso costituito un patrimonio
comune e condiviso da tutte le aggregazioni impegnate nella costruzione
di una alternativa radicale al pensiero unico e al sistema liberista.
Dopo i referendum
Interpreto la straordinaria vittoria ai referendum di giugno (tutti e
4 insieme!) come un esplicito richiamo alla supremazia della vita
sull’economia, nella specifica riscoperta e valorizzazione dei cicli
vitali sul territorio per acqua, sole, terra e aria e come un inedito
privilegio riconosciuto alle leggi della natura rispetto a quelle
dominanti dell’economia. La questione energetica, dentro il nostro
ragionamento, assume allora un’importanza cruciale, dato che l’abbandono
del nucleare prevede un passaggio accelerato da sistemi centralizzati
ed extraterritoriali, propri dell’era fossile, a sistemi decentrati,
alimentati da fonti rinnovabili e integrati e programmati nel
complesso delle risorse territoriali, anche per i loro riflessi sullo
sviluppo dell’occupazione, oltre che per gli effetti sulla salubrità
della produzione e sulla riduzione del consumo.
Vengono così portate in primo piano le ragioni di un modello che
prende ad imitazione la natura, che si riappropria del tempo, che
applica la parola tagli agli sprechi, anzichè ai bisogni e ai diritti e
che punta a riarmonizzare lavoro e natura. In una simile prospettiva,
che implica una gigantesca riconversione, c’è un assoluto bisogno di
sindacati autonomi e di riportare al centro del conflitto l’impiego
stabile, la sua qualità complessiva, i diritti di un potere democratico
diffuso che non si ferma alle soglie del mondo del lavoro.
Altro che accettare, come improvvidamente ha fatto anche la Cgil,
quel collegamento in negativo tra riconversione e investimenti imposto
da Marchionne e dalla Confindustria con l’accordo del 28 giugno! Una
sottrazione di titolarietà nei confronti di un soggetto
costituzionalmente preposto a organizzare il negoziato per le scelte
produttive e per le condizioni di lavoro e costretto invece a subire
l’arbitrio dell’impresa, accettare deroghe al contratto nazionale, fino a
rinunciare agli strumenti di lotta che conferiscono potere ai
lavoratori.
Partire dal territorio
Le “parole chiave” di seguito riportate alludono a concetti
e, più precisamente, a fratture, che contraddistinguono un’epoca in cui
le trasformazioni risultano spesso più profonde delle nostre radici
culturali e denotano conflitti che rivelano l’affanno della stessa
democrazia liberale che conosciamo, segnalata dalla pesante
estromissione cittadini dalla partecipazione e dalle decisioni che li
riguardano. Si tratta di autentici “cleavages”, la cui ricomposizione si
situa per ora ancora lontana nel tempo e evoca semplicisticamente, ma
efficacemente, un mondo diverso e possibile.
Ho provato a stilare un elenco di
termini attorno al quale concretamente si stanno sviluppando pratiche,
lotte, cenni di riunificazione: pace e multiculturalità; beni comuni e
stili di vita; riconversione produttiva e senso del lavoro;
rappresentanza e autogoverno.
Se dovessi indicare una linea di percorso, sosterrei – a fronte di
una crisi di civiltà – che il territorio è il luogo da cui ripartire, la
riappropriazione del lavoro e i diritti dei lavoratori sono il
passaggio cruciale per sostenere il conflitto per un mondo diverso,
l’abbandono del concetto di crescita costituisce la direzione univoca
verso cui procedere, la ricostruzione della rappresentanza il nodo
politico da risolvere.
Per tornare al tema della riconversione, non possiamo prescindere dal
fatto che, nel complesso, il futuro dell’economia dell’Occidente sarà
dominato dalla stagnazione. Il percorso che cerchiamo di individuare – e
che chiamerei “riconversione-conversione ecologica”- deve
pertanto potersi adattare, nel bene e nel male, ad una situazione per la
cui soluzione non abbiamo ancora “una cassetta degli attrezzi”
adeguata, ma per cui disponiamo di una analisi ormai matura, che ho
sommariamente tentato di abbozzare in precedenza.
La riconversione-conversione ecologica dovrà essere un fattore di
condivisione di orientamenti, di collegamento operativo e di
coinvolgimento diretto per gli attori dei prossimi conflitti sociali,
per i promotori di buone pratiche, per i soggetti delle mille forme di
resistenza molecolare alle forme in cui si esercita il dominio attuale
del capitale, a partire dalla finanza.
Il fulcro della riconversione possibile è costituito dal
passaggio da un modello di consumo fondato su un accesso individuale ai
beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso.
In questa prospettiva il fattore determinante che si evidenzia è la territorializzazione dei
processi, il collegamento più diretto possibile tra produzione e
consumo, al fine di ricostituire legami sociali che non siano fondati
esclusivamente sul mercato, bensì “governati” attraverso il conflitto e
la ricostituzione di un controllo condiviso (una forma di autogoverno)
sui processi economici e sociali. Non tutto ovviamente può o deve essere
“riterritorializzato” e gli stessi poteri da contrastare hanno sovente
dimensione extraterritoriale. Ma è molto importante cominciare con
l’avvicinare quanto più possibile la produzione di beni fisici ai
luoghi del loro uso o del loro consumo.
Mi è chiaro che per le produzioni industriali, i cicli richiedono
spesso economie di scala che le collocano necessariamente al centro di
“reti lunghe” di fornitura e di smercio che non possono essere
ridimensionate oltre certi limiti. “Ciò non toglie che – come afferma
Guido Viale – la conquista di nuove forme di controllo da parte delle
comunità nel cui territorio questi impianti sono insediati (e che ne
ricavano reddito e ne subiscono gli impatti sociali e ambientali)
rientri a pieno titolo tra le finalità della conversione ecologica”.
Sono quattro le principali aree da porre sotto attenzione: le reti
energetiche decentrate e il passaggio alle fonti rinnovabili; la lotta
al cambiamento climatico e l’accesso alla mobilità; la tutela e la
manutenzione dei beni comuni (acqua, suolo, alimentazione, salubrità
dell’aria); la riqualificazione dell’assetto urbano e il non consumo di
suolo. Gran parte di questi temi è già stata sviluppata in varie sedi.
Si tratta di realizzarne una sintesi con una dimensione operativa,
esplicitando le diversità di orientamenti e di valutazioni riscontrate,
per renderla disponibile a una platea di “utenti” non specialistici e
più ampia possibile.