8 lug 2011

radar anti-migranti tossici

da http://www.democraziakmzero.org
 
di ANTONIO MAZZEO
Cortei, sit-in, presidi permanenti, interrogazioni parlamentari, petizioni popolari, esposti e ricorsi al Tar. Cresce la protesta di cittadini e associazioni ambientaliste contro l’installazione in alcune riserve naturali di Puglia, Sardegna e Sicilia dei famigerati radar anti-migranti EL/M-2226 ACSR prodotti dall’azienda israeliana Elta System. I potenti sensori sono stati acquistati dalla Guardia di Finanza grazie alle risorse del “Fondo europeo per le frontiere esterne”, programma quadro 2007-08 contro i flussi migratori, e costituiranno l’ossatura della nuova Rete di sensori radar di profondità per la sorveglianza costiera che sarà integrata al sistema di comando, controllo, comunicazioni, computer ed informazioni della forza armata per individuare e respingere le imbarcazioni di migranti di piccole dimensioni. Un affare di decine e decine di milioni di euro per il complesso militare industriale israeliano e per la società romana Almaviva (già Finsiel), scelta d’imperio dal Comando della Gdf per approntare i siti e posare i tralicci radar.
La lista delle località prescelte per gli impianti si fa ogni giorno sempre più fitta e comprende zone costiere del sud Italia sottoposte a vincoli ambientali e archeologici. La regione più colpita è senza dubbio la Sardegna: le località individuate per insediare i mostri a microonde sono l’isola di Sant’Antioco, Capo Pecora a Fluminimaggiore, Punta Foghe a Tresnuraghes, Capo Falcone a Stintino, Punta Scomunica all’Asinara e Capo Argentiera nel comune di Sassari. Nel caso di Sant’Antioco, l’installazione radar dovrebbe sorgere presso l’ex stazione militare di Capo Sperone – Su Monti de su Semaforu, sull’altura di Tinnias, splendida area oggi di proprietà della Regione Sardegna, ricadente nel parco naturale di “Carbonia ed Isole Sulcitane”, dove sono presenti pure fabbricati particolarmente significativi dal punto di vista storico-culturale ed architettonico. L’impianto di Punta Foghe a Tresnuraghes incide invece in un territorio classificato come “Zona di Protezione Speciale”, sottoposto a rigidi vincoli di natura ambientale per consentire il ripopolamento della fauna selvatica.
Ciononostante, la Regione Sardegna è giunta ad autorizzare Almaviva ad eseguire lavori “in deroga” alle norme di tutela. A Capo Pecora – Fluminimaggiore, le ruspe hanno deturpato l’arenile di Portixeddu, area SIC (sito di interesse comunitario), grattando via in particolare il cocuzzolo di Murru Biancu, la collina che dominava il litorale roccioso.
In Puglia, nelle mire della Guardia di Finanza ed Almaviva c’è invece un terreno di 300 mq ubicato tra le località “Sciuranti” e “Salanare”, all’interno del perimetro del parco naturale Otranto – Santa Maria di Leuca – Bosco di Tricase. In questo caso, tuttavia, lo scorso 17 giugno il Tribunale amministrativo regionale di Lecce ha accolto la richiesta di sospensiva dei lavori d’installazione del radar presentata dal Comitato regionale di Legambiente Puglia, invalidando il parere favorevole reso dalla Soprintendenza dei Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Lecce, Brindisi e Taranto e dal comune di Gagliano del Capo.
Per quanto riguarda invece la Sicilia, il radar è stato già montato da diversi mesi a Capo Murro di Porco presso la stazione di sollevamento fognario del Comune di Siracusa, zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed archeologico e prospiciente l’oasi marina protetta del Plemmirio, istituita nel 2005. A seguito delle proteste dei residenti dell’area, dei no war e dell’Associazione Plemmyrion, il 16 aprile 2011 la ministra dell’ambiente Stefania Prestigiacomo (siracusana) aveva strappato al Comando della Guardia di finanza l’impegno ad “individuare in tempi brevi un sito alternativo per eliminare un traliccio che deturpa l’ambiente in una zona di pregio e sottoposta a tutela”, ma sino ad oggi non è stato fatto alcun intervento per rimuovere da Capo Murro di Porco le infrastrutture realizzate.
“L’installazione dei radar potrebbe comportare rischi per la salute dei cittadini, oltre che creare delle servitù militari permanenti e aggiuntive che in Sardegna, in particolare, andrebbero ad aggiungersi alle servitù già esistenti, le quali hanno prodotto per la popolazione residente già gravi conseguenze”, denuncia con un’interrogazione presentata ai ministri dell’Interno, dell’Economia e delle Finanze, della Difesa e dell’Ambiente, l’onorevole Francesco Ferrante (Pd). “Assolutamente insufficienti appaiono al riguardo le rassicurazioni del direttore generale di Almaviva, dott. Antonio Amati, secondo il quale i radar verranno installati su colline, lontane 300 metri dalle coste, seguendo le procedure senza imboccare scorciatoie militari. E le emissioni elettromagnetiche saranno inferiori a quelle delle antenne dei telefonini”, riporta Ferrante. “Appare viceversa più attuale il rischio che si crei uno scempio ambientale, urbanistico e paesaggistico, come denunciato pubblicamente tra gli altri da Legambiente Sardegna, che ha chiesto su questi temi l’immediato avvio di un confronto a livello nazionale”.
In conclusione, il parlamentare del Pd ha chiesto di conoscere “le procedure di assegnazione dell’appalto alla società Almaviva; l’iter amministrativo che ha condotto al rilascio delle autorizzazioni ad installare i radar in zone incontaminate delle coste italiane; se, e con quale decreto, siano state riconosciute tali strutture “opere di difesa militare”; se non si ritiene improcrastinabile adoperarsi per tutelare le aree interessate dalle installazioni, nonché opportuno avviare un monitoraggio in modo che sia garantita l’assenza di pericolo di inquinamento elettromagnetico”.
Sul pericolo elettromagnetico rappresentato dall’ultima generazione di radar anti-immigrati è intervenuto Massimo Coraddu dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) di Cagliari. Il fisico ha analizzato lo studio di impatto elettromagnetico prodotto dagli ingegneri Antonio Casinotti e Giampaolo Macigno per conto della società Almaviva, relativo all’installazione dei radar a Gagliano del Capo e Siracusa. “Gli EL/M2226 ACSR sono trasmettitori Linear Frequency Modulated Continuous Wave (LFMCW) in X-band (dagli 8 ai 12.5 GHz di frequenza), con una potenza di emissione di 50 W e onde molto corte comprese tra i 300MHz e i 300 GHz”, esordisce Coraddu per poi denunciare come le due analisi  “appaiano gravemente carenti sotto molteplici aspetti”, mentre i “risultati vengono riportati in modo poco trasparente e di difficile lettura”. “Esistono notevoli incertezze e imprecisioni riguardo le caratteristiche tecniche e l’esatta modalità di funzionamento del radar, dovute all’incompletezza di quanto riportato nell’analisi d’impatto e a incoerenza con quanto riportato dal costruttore”, scrive il fisico. “La procedura di calcolo adottata nello studio di Almaviva non è chiara (non è specificato quali strumenti software sono stati utilizzati e come); parte delle formule riportate sono erronee o inadeguate alla situazione (adozione di una approssimazione di “campo lontano” a distanze inferiori al limite che lo consente); non si è tenuto conto di tutti i contributi alle emissioni”.
Tra le gravi “incongruenze” delle caratteristiche tecniche del sistema radar, Massimo Coraddu individua quella relativa alla sua presunta velocità di rotazione costante. “Nella sua documentazione, la casa produttrice Elta-System vanta la grande capacità di risoluzione di questo radar, a loro dire capace di individuare il periscopio di un sommergibile tra i flutti a decine di km di distanza, valutare direzione, velocità e numero di persone a bordo di una piccola imbarcazione a 20 km di distanza. Sembra poco probabile che tali prestazioni si possano raggiungere semplicemente scansionando a velocità costante il tratto di mare antistante. È verosimile invece che la velocità di rotazione sia costante solo in fase di sorveglianza, mentre nel momento in cui un bersaglio viene individuato, il dispositivo possa essere bloccato e il fascio diretto sul bersaglio sino alla sua completa definizione. In questo caso, nella valutazione del possibile danno alle persone, deve essere individuato come peggior incidente possibile quello in cui il radar viene puntato e rimane fisso sul soggetto”.
Inoltre, in entrambe le analisi di impatto elettromagnetico, le uniche misure sul campo riportate sono quelle relative al livello di fondo dei campi presenti. “Una scelta immediatamente incongrua” scrive Coraddu. “Le misure sono state effettuate infatti con la sonda isotropa EP330, fabbricata dalla Narda S.r.l., che registra campi sino alla frequenza massima di 3 GHz, mentre il radar anti-migranti emetterà a frequenze molto superiori (oltre 9 GHz), alle quali la sonda non è sensibile, e il cui fondo quindi non può essere rilevato”.
Finanche “erronee” appaiono poi le procedure di calcolo dell’intensità delle onde irradiate negli impianti di Gagliano del Capo e Siracusa. Nello specifico, il calcolo del cosiddetto “campo vicino” – i cui effetti elettromagnetici vengono definiti “trascurabili” – è stato effettuato adoperando le formule adottate per la zona di “campo lontano”, non ottemperando a quanto previsto dalla norma CEI 211-7, per cui “ il limite di campo vicino deve essere posto alla maggiore delle due distanze, e dunque le formule approssimate per il campo lontano si potranno usare solo a distanze maggiori o uguali a 470 mt, e non a pochi metri dal sistema radiante, come specificato nella relazione”.
A conclusione del suo studio, Massimo Coraddu individua un’altra grave incongruenza nelle procedure di calcolo dell’elettromagnetismo dei sistemi made in Israele. “Tutte le stazioni radar di sorveglianza prevedono anche un dispositivo di telecomunicazione, un ponte radio per inviare i dati, in tempo reale, al centro di Comando, Controllo, Comunicazioni, Computing ed Informazioni C4I del Comparto Aeronavale della Guardia di Finanza”, scrive il fisico. “Come specificato dall’Ingegner Ferri dell’impresa Almaviva spa, in sede di conferenza dei servizi, per quanto riguarda l’installazione radar di Capo Sperone (Sardegna), ad esempio, il ponte radio è realizzato con un sistema radiante fisso di 120 cm di diametro operante nella banda di 8 GHz. Le emissioni di questo sistema di telecomunicazioni devono quindi essere valutate, mentre invece in entrambe le analisi di impatto elettromagnetico viene invece misurata, in modo scorretto, solo la componente di fondo, mentre non si tiene conto in alcun modo del contributo del ponte radio. Possiamo pertanto affermare che è stata applicata una procedura inconsistente e inadeguata per la valutazione delle emissioni nella zona circostante il radar”. I nuovi radar della Guardia di Finanza, prima ancora di scatenare la loro guerra ai migranti, hanno già fatto le prime vittime: l’ambiente, il paesaggio e la salute delle popolazioni residenti.

7 lug 2011

NO TAV. NO poligoni, NO radar - Cagliari, 9 luglio


 

Cagliari, SABATO 9 luglio a PARTIRE DALLE ORE 17,30, manifestazione con inizio da Piazza Garibaldi. No Tav, No radar, No poligoni.

Tre sostantivi preceduti da una negazione. Sì, non vogliamo che venga realizzata quell’opera faraonica, inutile e dispendiosa che va sotto il nome di Tav, frutto di un gigantesco imbroglio. Un’ opera pensata e progettata venti anni fa e ormai vecchia,  visto che le merci che viaggiano su quella tratta non aumentano ma diminuiscono; devastante per un territorio particolarmente sensibile dal punto di vista ambientale e paesaggistico e che si vuole portare avanti comunque ed  a qualsiasi costo  contro gli interessi e il volere  delle popolazioni che abitano quelle valli. Un atto di imperio perpetrato da parte del governo centrale e di buona parte delle opposizioni! Un atto di arroganza sorda e cieca concretizzatasi nella militarizzazione di quella Valle e nell’ uso della violenza!
Ci chiediamo quanto possa durare questa militarizzazione! Non possiamo non denunciare la cialtronaggine di chi, a parole, si dichiara federalista, difensore delle “piccole patrie”, “ognuno padrone in casa propria”, salvo poi comportarsi come il peggiore assertore di un governo centralista, sordo alle istanze dei territori.

E dicendo No Tav non possiamo non dire No Radar.
No, perché non si riesce a comprendere l’utilità di questi aggeggi. Noi crediamo che facciano un torto all’intelligenza del popolo sardo coloro che ci ammanniscono  la storiella “dell’avvistamento dei clandestini” per giustificare l’installazione di questi ordigni,  Noi vogliamo che  la Sardegna sia una terra di pace  e non vogliamo che venga ulteriormente militarizzata mediante l’installazione di nuovi strumenti di guerra; tali noi consideriamo questi radar. Non dimentichiamo, non vogliamo dimenticare, anzi abbiamo il dovere di ricordare che, mentre si attrezza per impiantare questi aggeggi, lo stato italiano, in combutta con altri, conduce una guerra di aggressione contro una nazione che  fino ad ieri veniva considerata “amica” ( la Libia ) mentre continua a condurne un’altra in Afghanistan.
Stiamo ‘’scoprendo’’ ( in realtà si sa già da molto tempo! ) giorno dopo giorno i disastri provocati da un poligono militare, quello di Quirra, a persone, animali, acqua, aria e suolo, e siamo convinti che si verrà informati solo su una piccolissima parte di quanto si nasconde, già da diverso tempo, alla popolazione locale su quel territorio e su tutti i territori sardi oggi occupati da basi o servitù militari. Per questo diciamo NO  A QUESTO E AGLI ALTRI POLIGONI MILITARI, utilizzati per sperimentare armi e logistiche di guerra in Sardegna e nel resto del mondo.

da http://www.democraziakmzero.org/2011/07/06/cagliari-no-tav-no-poligoni/

6 lug 2011

la doppia impostura della "ripresa"


 
di SERGE LATOUCHE *
Introduzione
Che cosa è la «ripresa»? E’ in sostanza quel che è stato proposto al vertice (G8 / G20) di Toronto, un programma che contiene allo stesso tempo sia la ripresa che l’austerità. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiedeva una politica vigorosa di rigore e di austerità. Il presidente degli Usa Barak Obama, temendo di colpire la timida ripresa dell’economia mondiale e di quella statunitense con una politica deflazionista, chiedeva un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppicante: la ripresa controllata nel rigore e l’austerità moderata dal rilancio. Il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che non era ancora presidente del Fondo monetario internazionale, ha allora azzardato il neologismo «rilance» (contrazione di «rigueur e «rilance»). Con ciò sincronizzando il passo con il consigliere del presidente Sarkozy, Alain Minc, che, interrogato su quel che bisognava fare nella situazione critica provocata dalla destabilizzazione degli Stati da parte di mercati finanziari che i medesimi Stati avevano appena salvato dalla rovina, si è prodotto in questa ammirevole formula: bisogna schiacciare allo stesso tempo il freno e l’acceleratore.
In ogni modo, denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce per me una tripla sfida.
Prima di tutto, si tratta parlare in questo luogo, nell’ambito del parlamento europeo a Bruxelles – tempio della religione della crescita – a partire da una posizione iconoclasta, la decrescita, per di più a proposito di una materia di cui non sono uno specialista, la Grecia e la crisi del debito sovrano.
Poi, si tratta di parlare in questo luogo – tempio della politica – a partire da una posizione da «scienziato» e dunque, per riprendere la distinzione e l’analisi di Weber, secondo l’etica della convinzione e non quella della responsabilità.
Infine, si tratta di sostenere un punto di vista paradossale: né rigore, né ripresa.
Rifiutare il rigore o l’austerità è una posizione sulla quale posso almeno trovare degli alleati (benché molto minoritari) sia tra gli economisti, ad esempio Fréderic Lordon, che tra i politici, come J-L Mélanchon secondo il suo attuale programma.
Rifiutare la ripresa della crescita produttivista e uscire dalla religione della crescita è una posizione ammessa da alcuni ecologisti sul lungo termine, ma del tutto esclusa nel breve termine.
E’ dunque a questa tripla sfida che cercherò di rispondere, a cominciare dai due rifiuti: quello del rigore e quello della ripresa.
Rifiutare l’austerità
La crisi greca si inscrive nel contesto più largo di una crisi dell’euro e di una crisi dell’Europa. E naturalmente di una crisi di civilizzazione della società del consumo, vale a dire una crisi che unisce una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi sociale, una crisi culturale e una crisi ecologica. La mia convinzione profonda è che, risolvendo la crisi dell’Europa e dell’euro, se non la crisi della civilizzazione dei consumi, si risolverà la crisi greca, ma che, tenendo la Grecia sotto trasfusione a colpi di prestiti condizionati a iniezioni sempre più massicce di austerità, non si salverà né la Grecia, né l’Europa, e si getteranno i popoli nella disperazione.
Rifiutare l’austerità presuppone prima di tutto cancellare due tabù che sono alla base della costruzione europea: l’inflazione e il protezionismo.
Il progetto della decrescita, ossia la costruzione una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita, implica due fenomeni che hanno potuto essere gli oggetti di politiche sistematiche, nel passato: il protezionismo e l’inflazione. Le politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, e quelle di finanziamento del deficit di bilancio con un ricorso ragionevole all’emissione di moneta che provocasse una «gentle rise of price level» (una inflazione moderata) preconizzata da Keynes, hanno accompagnato l’eccezionale crescita delle economie occidentali nel dopoguerra, gli anni che in Francia sono stati chiamati «i trenta gloriosi». a dire il vero il solo periodo nella storia moderna in cui le classi lavoratrici hanno goduto di un relativo benessere.
Questi due strumenti sono stati banditi dalla controrivoluzione neoliberista, e le politiche che li vorrebbero prevedere sono oggi colpite da anatema, anche se tutti i governi che possono vi hanno fatto ricorso in maniera più o meno surrettizia e insidiosa.
Come tutti gli strumenti, il protezionismo e l’inflazione possono avere degli effetti negativi e perversi  – e sono quelli che soprattutto si osservano oggi nel loro utilizzo nascosto (1) – ma è indispensabile farvi ricorso in modo intelligente per risolvere in modo soddisfacente, da un punto di vista sociale, le crisi attuali, ed evitare la catastrofe di una austerità deflattiva, ma anche il disastro certo di una ripresa produttivista.
Per questo oggi bisogna probabilmente uscire dall’euro, non potendo correggerlo. Bisogna riappropriarsi della moneta, che deve ritrovare il suo ruolo: servire e non asservire. Il denaro può essere un buon servitore, ma è sempre un cattivo padrone.
Notiamo per altro che la ripresa della signora Lagarde non è il rilancio produttivista di Joseph Stiglitz: è essenzialmente il rilancio dell’economia del casinò, quella della speculazione di borsa e immobiliare.
In effetti, per i governi in carica, lo slogan «sia ripresa sia austerità» significa la ripresa per il capitale e l’austerità per le popolazioni. In nome della ripresa, per altro largamente illusoria, degli investimenti e quella totalmente fallace dell’occupazione, vengono abbassati o soppressi gli oneri sociali, le imposte sulle professioni e l’imposta sugli utili delle imprese. Si rinuncia ad ogni imposizione sui super-profitti bancari e finanziari, mentre l’austerità colpisce duramente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione (che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare). Per completare il tutto, e preparare la mitica ripresa, si smantellano sempre più i servizi pubblici e si privatizza a tutta velocità ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.).
Assistiamo a una strana corsa masochista all’austerità. Il Paese A annuncia una diminuzione dei salari del 20 per cento, allo stesso tempo il paese B annuncia che farà di meglio, con una diminuzione del 30 per cento, mentre il paese C, per non essere da meno si ingegna di aggiungere misure ancora più rigorose. Annunci per di più sommati alla pubblicità onnipresente, che incita a continuare a consumare sempre di più senza averne i mezzi e a indebitarsi senza la prospettiva di poter rimborsare il debito: bisogna in qualche modo espiare la pseudo festa del consumo pur continuando a sostenerla nella parte dei debitori.
Questa politica di austerità stupida non può che provocare un ciclo deflattivo che farà precipitare la crisi, ciò che la ripresa puramente speculativa non impedirà; e gli Stati dissanguati non potranno più, questa volta, salvare le banche a colpi di miliardi di dollari.
Questa politica non è solo immorale, ma è anche assurda. Otterremo il fallimento dell’euro, se non dell’Europa, e la catastrofe sociale.
In attesa di questa eventualità, se gli obiettori della crescita fossero incaricati di gestire gli affari della Grecia, per esempio, quale sarebbe la loro politica? Il ripudio puro e semplice del debito, ossia la bancarotta dello Stato, sarebbe una medicina da cavallo che risolverebbe il problema sopprimendolo. Tuttavia, questa soluzione radicale, che non è da escludere e avrebbe facilmente il favore dei «decrescitisti», rischierebbe di gettare il paese nel caos. Il problema è che, in effetti, in pratica la crisi dell’indebitamento degli Stati non è che una parte del problema. La risposta teorica alla sola questione del debito degli Stati che, anche per i più indebitati, è dell’ordine dell’ammontare del Pil, è per altri versi più facile a farsi di quella che concerne il trovare una soluzione per la bolla mondiale dei crediti nati dalla speculazione finanziaria (2). La minaccia di un rischio sistemico è lontana dal poter essere scartata.
Per quel che riguarda il debito pubblico, il suo annullamento rischierebbe di colpire non solo le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli risparmiatori che hanno dato fiducia al loro Stato o che si sono fatti rifilare dalla loro banca, a loro insaputa, degli investimenti complessi che comprendono titoli dubbi. Una riconversione negoziata (che equivarrebbe a una bancarotta parziale), come quella che si è fatta in Argentina dopo il crollo del peso, o dopo un compromesso, come propongono Eric Toussaint e una coalizione di Ong per determinare la parte abusiva del debito, è senza dubbio preferibile. Si può anche prevedere di mantenere la quotazione dei titoli per i piccoli investitori e un deprezzamento per il 40 e il 60 per cento degli altri, o ancora ricorrere a un «haircut» fiscale (3). Per onorare il debito residuo, un aumento dei prelievi fiscali grazie a una tassa eccezionale sui profitti finanziari, come fa l’Ungheria, non sarebbe una cattiva idea, oltre che l’avvio di una fiscalità progressiva con, prima di tutto, nel caso francese l’abbandono reale dello scudo fiscale e delle nicchie scandalose.
In una società della crescita senza crescita, ossia più o meno la situazione attuale, lo Stato è condannato ad imporre ai cittadini l’inferno dell’austerità, con prima di tutto la distruzione dei servizi pubblici e la privatizzazione di quel che è ancora possibile vendere dei gioielli di famiglia. Facendo questo, si corre il rischio di creare una deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. E’ precisamente per evitare questo che bisogna adoperarsi per uscire dalla società della crescita e di costruire una società della decrescita.
Uscire dalla religione della crescita
Di fronte a questa minaccia reale ci sono buoni spiriti, come Joseph Stiglitz, che raccomandano le vecchie ricette keynesiane del rilancio del consumo e dell’investimento per far ripartire la crescita. Questa terapia non è desiderabile. Non lo è perché il pianeta non può più sopportarla, ed è forse impossibile perché, dato l’esaurimento delle risorse naturali (in senso ampio) già dagli anni settanta, i costi della crescita (quando c’è) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività che ci si può aspettare sono nulli o quasi nulli. Bisognerebbe privatizzare ancora e mercificare le ultime riserve di vita sociale e far crescere il valore di una massa immutata – o in diminuzione – dei valori d’uso, per prolungare solo di qualche anno l’illusione della crescita.
Tuttavia, questo programma socialdemocratico, che costituisce la missione dei partiti di opposizione, non è credibile, innanzitutto perché questi partiti non sono in grado di rimettere in questione la gabbia di ferro del quadro neoliberista che essi stessi hanno contribuito a costruire nel corso degli ultimi trent’anni, e che presuppone una sottomissione senza riserve ai dogmi monetaristi. L’esempio della Grecia è in questo abbastanza eloquente.
Si tratta di uscire dall’imperativo della crescita; altrimenti detto, di rifiutare la ricerca ossessiva della crescita. Che non è evidentemente (e non deve essere) uno scopo in sé; essa non rappresenta più il mezzo per abolire la disoccupazione (4). Bisogna tentare di costruire una società dell’abbondanza frugale, o per dirla come Tim Jackson di prosperità senza crescita.
In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere al ricerca del pieno impiego per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere fatto con una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare e gli armamenti, e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Per il resto, è il ricorso a una inflazione controllata (diciamo più o meno il 5 per cento l’anno) quel che noi ci augureremmo. Questa soluzione keynesiana, che equivale al ricorso a una moneta complementare per stimolare l’attività economica senza per questo rientrare nella logica della crescita illimitata, faciliterebbe la soluzione dei problemi provocati dall’abbandono della religione della crescita.
Certo, questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia, presuppone come minimo di uscire dall’euro e ristabilire la dracma, probabilmente non convertibile, con quel che questo implica: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo di questa strategia provocherebbe l’orrore degli esperti di Bruxelles e dell’Omc. Bisognerebbe dunque aspettarsi delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione dall’estermo collegati al sabotaggio degli interessi lesi all’interno. Questo programma sembra perciò oggi molto utopico, ma quando saremo al fondo del marasma e della vera crisi che ci aspetta al varco sembrerà realistico e desiderabile.
Conclusione
Nella tragedia greca antica  la catastrofe è la scrittura della strofa finale. Qui siamo. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma è classicamente socialdemocratico e, sotto la pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neoliberista da parte di quello stesso partito, che obbedisce alle ingiunzioni congiunte di Bruzxelles e del Fondo monetario internazionale. Rifiutare democraticamente questo diktat, quel che l’Islanda ha potuto fare, è impedito alla Grecia dall’euro. E’ chiaro che il popolo greco non accetterebbe probabilmente più, nella sua maggioranza, e comunque facilmente, le conseguenze delle rotture necessarie a un’altra politica (uscita dall’euro, disconoscimento almeno parziale del debito pubblico, messa al bando probabile da parte dell’Europa e embargo da parte dei paesi «derubati», fuga dei capitali, ecc.). Ma «il sangue e le lacrime», secondo la famosa frase di Churchill, sono già qui, purtroppo senza la speranza della vittoria. Il progetto della decrescita non pretende di fare un’economia di questo sangue e di queste lacrime, ma per lo meno apre la porta alla speranza. La sola maniera di cavarsela, noi ce lo auguriamo ardentemente, sarebbe di riuscire a fare uscire l’Europa dalla dittatura dei mercati e di costruire l’Europa della solidarietà, della convivialità, quel cemento del legame sociale che Aristotele chiamava «philia».
Note
(1) Secondo la Banca mondiale le conseguenze del protezionismo agricolo del Nord equivarrebbe a un mancato guadagno di 50 miliardi di dollari all’anno per i paesi esportatori del Sud. Il deputato verde tedesco Sven Giegold ne ha fornito un altro esempio con la politica fiscale tedesca per forzare le esportazioni.
(2) Secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, in effetti, nel febbraio 2008 la creazione di prodotti derivati arrivava a 600.000 miliardi di dollari, ossia tra 11 e 15 volte il prodotto lordo mondiale! E qui, a parte il crollo, anche un «decrescitista» non ha una medicina miracolosa per un atterraggio morbido…
(3) E’ quel che ha proposto Thomas Piketti in un intervento sul giornale Libération del 28 giugno. Si tratta di far pagare alle banche una parte del rimborso del debito.
(4) Secondo il calcolo di Albert Jacquard («J’accuse l’economie triomphante», Calmann Lévy 1995 / Poche 2004, p. 63), si stima che una crescita del Pil francese del 4 per cento comporterebbe la diminuzione del tasso di disoccupazione del 2 per cento. A un tale ritmo, tra cinquant’anni il Pil sarà stato moltiplicato per sette (più 600 per cento), ma il numero dei disoccupati non si ridurrebbe che del 64 per cento. Dato che la disoccupazione, tutte le categorie incluse, riguardava nel 2010 5 milioni di persone, saremmo ancora molto lontani dal pieno impiego nel 2060, perché rimarrebbero un po’ meno di due milioni di disoccupati.
* Professore emerito di economia all’Université d’Orsay, obiettore della crescita.

5 lug 2011

RUTILIO NAMAZIANO E IL SUO DIARIO DI VIAGGIO

Nell’agosto del 410 d.C. i Goti di Alarico presero e saccheggiarono Roma. Fu un evento di immensa risonanza e lo stato d’animo dei contemporanei si può scorgere riflesso in una frase di San Girolamo: «che cosa mai si potrà salvare, se perisce Roma?»
 Dopo quell’impresa, i Goti misero a ferro e fuoco l’Italia intera, poi passarono in Provenza e, infine, nella Penisola Iberica, nel 415.
Claudio Rutilio Namaziano era un aristocratico, originario della Gallia Narbonese che aveva percorso una brillante carriera nella città di Roma, culminata nel 412 con la carica di prefetto della città, una sorta di moderno sindaco.
 Fra il 415 e il 417 decise di lasciare la città che più aveva amato per fare ritorno ai suoi possedimenti familiari in Provenza al fine di porre riparo alle devastazioni provocate dal passaggio dei Goti.
… È tempo di costruire, dopo i feroci incendi,
sui fondi laceri anche soltanto casette
 da pastori.
Che se le stesse fonti, anzi, dare voce,
se i nostri arbusti potessero parlare,
con giusti pianti mi stringerebbero
 mentre tardo mettendo
al mio desiderio le vele…
 
Organizzò quindi una sorta di trasloco e salpò con una flottiglia di piccole barche, in grado di fare fronte a un carico piuttosto cospicuo, ma nel contempo in grado di potersi rifugiare prontamente sulla costa in caso di maltempo.
Il viaggio infatti si svolgeva fra autunno e inverno, durante il periodo del cosiddetto mare clausum, il che sconsigliava la soluzione più comoda e più breve: trasportare il tutto su un’unica nave oneraria e affrontare una traversata in alto mare.

  … Si sceglie il mare, perché le vie di terra,
fradice in piano per i fiumi, sui monti sono
aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti, è meglio affidare le vele al mare, sebbene incerto….
…Salpiamo all’alba, in una luce ancora irrisolta, quando il colore, da poco tornato sui campi,li lascia scorgere.
Tenendoci stretti alla costa avanziamo con piccole barche cui spesso la terra a rifugio apra insenature.
D’estate escano in mare aperto le vele dei grossi carichi, d’autunno è più cauto disporre di un’agile fuga …
 

Dunque viaggiò a piccole tappe, mantenendosi lungo la costa, fermandosi a pernottare presso amici o in locande, costretto a volte dal maltempo a soste prolungate.
Di questo viaggio, avviatosi dal Porto di Roma – il Portus Augusti – poco a nord di Ostia, nell’area dell’odierna Fiumicino, che forse doveva giungere fino a Narbona in Gallia, Rutilio tenne un diario poetico, in distici elegiaci,
che appunta i minimi eventi dei singoli giorni. Il poemetto, solitamente indicato con il titolo De reditu suo, è giunto lacunoso e ci consegna l’itinerario di Rutilio fra Roma e Luni, vicino all’attuale La Spezia.
In questa sorta di singolare giornale di bordo, o meglio di diario di viaggio, pochi nitidi tratti
disegnano paesaggi, porti, marine, ma anche profili di amici e digressioni erudite.
Ai nostri occhi di oggi gli appunti poetici di Rutilio consegnano una realtà sconvolta: ponti e strade in rovina, città ridotte a cumuli di ruderi a causa dell’azione combinata del tempo, del disamore e delle invasioni, ed anche attacchi al giudaismo e al monachesimo cristiano, insieme alla parallela valorizzazione dei culti pagani di Osiride e della stessa dea Roma.
Ma come si conclude il viaggio e cosa accade dopo?
 Possiamo solo affidarci a ipotesi. È lecito pensare che Rutilio sia arrivato a destinazione e che laggiù si sia dedicato in seguito alla redazione definitiva del poemetto, confortato
dagli appunti già presi a suo tempo e dal vigile sentimento della nostalgia.
Una volta che ne ebbe ottenuto il desiderato nitore e se ne vide soddisfatto, pensò alla sua diffusione e ne promosse la riproduzione in più esemplari, destinati, in primo luogo agli amici della sua cerchia, ed è verosimile pensare che un giorno abbia organizzato nella sua villa una grande festa, adeguata cornice a una prima recitazione. 
E possiamo anche immaginare questa sorta di vernissage tardolatino, ma l’incertezza delle informazioni sfuoca le immagini e ci invita alla dissolvenza …



Claudio Rutilio Namaziano, Nato forse a Tolosa, fu praefectus urbi di Roma nel 414. L'anno seguente o poco dopo fu costretto a lasciare Roma per far ritorno nei suoi possedimenti in Gallia devastata dall'invasione dei Vandali. Tale viaggio - condotto per mare e con numerose soste, dato che le strade consolari erano impraticabili ed insicure dopo l'invasione dei Goti - venne descritto nel De Reditu suo, un componimento in distici elegiaci, giunto all'epoca odierna incompleto; l'opera si interrompe al sessantottesimo verso del secondo libro con l'arrivo del protagonista a Luni, ma recentemente è stato ritrovato un nuovo, breve frammento che descrive la continuazione del viaggio fino ad Albenga. L'opera è ricca di osservazioni topografiche e citazioni di classici latini e greci. Il poemetto raggiunge i toni più commossi quando esprime il clima di decadenza e lo squallore dei tempi che l'autore attribuisce ai Barbari e al trionfante Cristianesimo. Namaziano è, cronologicamente, l'ultimo autore del mondo letterario latino, prima del transito verso il Medioevo.


4 lug 2011

Sassos

giugno 2009 - luglio 2011


Ailanthus altissima: sterminare senza pietà

Pianta infestante, dalla rapidissima proliferazione, le cui radici si estendono in larghezza anche fino a trenta metri sul suolo, dando luogo a colonie di nuove piante figlie. È noto il cattivo odore delle sue foglie. Il fusto è generalmente eretto e molto ramificato con corteccia grigio-brunastra più chiara sui rami giovani. Le foglie sono composte, pennate, spiralate o opposte, e prive di stipole. I fiori, riuniti in infiorescenze a spiga o a pannocchia, sono generalmente unisessuali. Produce frutti secchi indeiscenti. Il nome del genere deriva dalla parola ailanto, termine che in lingua locale significa letteralmente "albero così alto da raggiungere il cielo". La presenza dell'"h" è dovuta ad una sovrapposizione del termine greco άνθος che significa "fiore". In Europa si è ormai diffusa in modo sostanzialmente incontrollabile la specie Ailanthus altissima Swingle, nota volgarmente col nome di albero del paradiso che può raggiunge i 25 m di altezza, molto ramificato, con numerosi polloni basali, originario della Cina e delle Molucche. Questa specie, introdotta in Italia per un tentativo di allevamento del lepidottero Philosamia cynthia originario dell'estremo Oriente per la produzione della seta, ormai si trova rinselvatichita nei boschi, sulle ripe, sui greti e anche su terreni aridi, sassosi e instabili, dalla pianura fino ai monti, diventando un'infestante molto aggressiva. Sostituisce piano piano la vegetazione preesistente, formando colonie. Si trova sempre più spesso anche in città, dove è usata, inopinatamente, come rapido rimedio contro i raggi solari; la pianta è infatti nota anche per l'estrema rapidità di crescita in altezza. Le sue caratteristiche infestanti, tuttavia, dovrebbero suggerire un attento controllo della sua incredibile propagazione.