È LA DISOCCUPAZIONE CREATIVA CHE CI DIFENDERÀ DAL MERCATO
di FRANCO LA CECLA, da “la Repubblica” del 13/4/2012
Sono passati più di trent’ anni da quando Ivan Illich scrisse un corrosivo pamphlet, “Il diritto alla disoccupazione creativa“,
nel quale teorizzava che contrariamente alle preoccupazioni sulla piena
occupazione e al verbo di sinistra e di destra sul valore del lavoro
c’era un’altra via, quella di concepire la propria disoccupazione come
un’occasione straordinaria per uscire dalle logiche solite del salario e
del mercato.
Illich rivendicava uno spazio alla
disoccupazione creativa nel quale si mettevano in dubbio le logiche che
avevano trasformato il lavoro in qualcosa da fare per un salario e
invece si riscattava la natura liberatoria di pratiche, azioni, saper
fare, attività individuali e collettive che lui chiamava vernacolari.
Vernacolare era secondo lui quello che nasceva dalla logica del fare
qualcosa per sé o per gli altri, dall’orto all’asilo gestito in comune,
dal mutuo appoggio al fare artigiano, artistico o letterario.
Il diritto alla disoccupazione
creativa leggeva nella schiavitù del lavoro salariato la peggiore delle
maledizioni che l’uomo moderno si era inventato e nel recupero del fare
per sé e per gli altri una magnifica strada per una società conviviale.
Oggi le tesi di Ivan Illich sono riprese da Richard Sennett nel suo bel libro “Insieme” che racconta come i luoghi che più hanno costituito comunità e democrazia dal basso sono stati nella storia gli “workshop“, i laboratori artigiani
proprio perché è nel fare con le mani, con il corpo e con gli altri che
si crea quel legame che consente alle comunità di resistere alla
stupidità suicida del capitalismo.
L’ arte del fare cose belle, utili,
insieme cioè dell’avere un saper fare individuale o collettivo è ben
lontana dall’idea di lavoro propugnata da un neoliberalismo che vorrebbe
tutti dequalificati e decentrati e che sembra diventato più un
piagnisteo bancario che un progetto di società.
Strano che in un paese come l’Italia
che ha inventato la qualità del fare ci si faccia prendere in giro da
formule di rilancio dell’economia che non tengono conto dello
straordinario potenziale che hanno le pratiche in cui la gente si
realizza, sente di essere utile, sente di possedere un mestiere.
Mi sono commosso poco tempo fa
visitando un laboratorio di sarti di altissimo livello in un paesino
sperduto e bello dell’Abruzzo: le mani di sarti che vi lavoravano
conoscevano stoffe e corpi che dovevano indossarle, sagomavano, davano
il garbo a giacche, tendevano pantaloni e dettagliavano asole con una
felicità che poi spiegava come mai tra i loro clienti c’era e c’è Obama,
Clinton e tutti i James Bond.
Ma la logica del lavoro
artigiano di alta qualità è la stessa degli artisti che non pensano di
“lavorare” quando dipingono o quando scolpiscono, o degli scrittori che
non ragionano con un tanto a parola, ma con la soddisfazione
che gli viene mentre buttano giù le righe. Effettivamente la crisi
attuale potrebbe essere un modo di uscire finalmente dalla logica
risicata dei banchieri e degli economisti nostrani.
È solo l’ energia, la gioia, la creatività, quella che soprattutto hanno i giovani a potere inventare “valore”.
Il valore, e questo gli economisti una volta lo sapevano, esiste prima
del denaro. In altri paesi è così che si è fatto il salto in avanti,
dando spazio proprio a queste arti e a queste culture del fare spremendo
l’entusiasmo giovanile nelle passioni pratiche.
Ma come si fa ad aspettarsi una cosa del genere in un paese come l’Italia che ha pianificato il genocidio dei propri giovani,
che è stata la prima generazione a ricordo d’uomo ad avere deciso che
per i giovani non c’era altra strada che quella di mettersi in ginocchio
di fronte agli sdentati e pavidi adulti.
In Cina, in Brasile, in Argentina, in
India gli artisti, gli artigiani, coloro che si riappropriano delle
risorse della terra, le cooperative di consumo, le cooperative di
autocostruzione, l’educazione autogestita, i social network,
l’informatica come accesso alle informazioni e come dibattito e
discussione, tutto questo ha consentito e consente il “grande balzo in
avanti”.
E non si tratta della banalizzazione
delle idee di Ivan Illich operata oggi da coloro che si battono per la
decrescita. La decrescita è ancora nella logica economica. Qui si tratta
di riappropriarsi del valore del tempo, dei gesti, delle
pratiche, dei saper fare e saper dire, del saper stare insieme e sapere
gestire le risorse naturali e culturali. Il tesoro che i
banchieri tanto cercano sta qui, e non si tratta di tirare la cinghia ma
proprio del contrario dell’avere della vita e della società una
concezione ricca e creativa.
Quella che l’Italia ha insegnato al
mondo nella sua passione per il bello, l’interessante, il fatto bene e
che è stata cancellata dal ventennio più volgare che questo paese abbia
avuto. Ma chissà che invece la crisi non aiuti anche noi a riscoprire il
“valore” del valore. – FRANCO LA CECLA