15 giu 2011

Una politica economica per la decrescita


decrescitaciclodi Marino Badiale, Massimo Bontempelli – Alfabeta2. da http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6291-una-politica-economica-per-la-decrescita.html

La principale questione che si pone a chi voglia dare spessore concreto al pensiero della decrescita è quella della transizione dalla attuale società della crescita ad una società, appunto, della decrescita. Per prima cosa occorre precisare che ragionando su società della crescita e società della decrescita, si stabilisce una comparazione (che certo è necessaria) tra termini eterogenei. Società della decrescita significa società svincolata dall'obbligo della crescita del prodotto interno lordo, cioè della produzione rivolta al mercato, che è tipico del capitalismo.
Ma poiché tutte le società precapitalistiche sono state immuni da questo obbligo alla crescita (il che non significa, ovviamente, che non siano cresciute, in un senso o nell'altro, per periodi più o meno lunghi, come, ad esempio, nei secoli XI, XII e XIII dell'Occidente feudale), l'espressione “società della decrescita” non indica una configurazione definita di rapporti sociali di produzione, cioè (usando il linguaggio marxiano molto appropriato in questo contesto) non indica una formazione sociale specifica.
I fautori della decrescita non possono, allora, avere un modello determinato di società, nel senso di cui si è detto, al quale fare riferimento. La tipica domanda che viene posta a chiunque si opponga all'attuale capitalismo assoluto (dal punto di vista della decrescita, o da altri punti di vista) è sempre: ma voi cosa proponete?
Chi sostiene la decrescita non ha risposta per questo tipo di domanda, se la risposta richiesta è l'indicazione di un modello determinato e preciso di organizzazione sociale. La decrescita, in riferimento ad una configurazione di rapporti sociali di produzione, può essere definita soltanto in quella maniera logica che le filosofie di Kant e di Hegel hanno chiamato negazione indeterminata.
Per capirci con una semplificazione, si tratta della stessa situazione logica che si ottiene negando un qualsiasi termine che indichi un oggetto empirico: così, ad esempio, se l'espressione “leone” indica una specie animale ben determinata, l'espressione “non leone” non indica alcun animale determinato. La decrescita è “non capitalismo”, ma appunto nel senso in cui cavalli, cani, gatti e così via sono “non leoni”.
Il pensiero della decrescita non può che nascere dalla negazione della teleologia capitalistica. La società capitalistica, infatti, è una “società della crescita” in un senso davvero unico nella storia. Non si tratta infatti di una società nella quale si ha, ogni tanto o anche molto spesso, un periodo di crescita, ma piuttosto di una società obbligata alla crescita, una società nella quale i fondamentali meccanismi economici reggono solo se si ha crescita. Ciò dà al pensiero della decrescita una grandissima forza razionale e storica, e gli pone, nello stesso tempo, una formidabile difficoltà di attuazione. La forza del pensiero della decrescita nasce dal fatto che la crescita capitalistica è giunta ad un punto in cui è incompatibile con il mantenimento di un ambiente di vita favorevole alla specie umana e con gli equilibri che garantiscono la coesione sociale delle collettività umane.
La difficoltà è che la crescita capitalistica ha comportato l’estensione sempre maggiore degli ambiti sociali soggetti alla legge della valorizzazione del capitale. Per valorizzare il capitale e contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto gli agenti capitalistici devono rimodellare sempre nuovi ambiti sociali sullo stampo del rapporto sociale capitalistico, per cui prima tutti gli ambiti della produzione, e poi anche ambiti sociali come quello dell’educazione, della scienza o dell’assistenza vengono mercificati e ricondotti alla logica aziendale di investimenti profittevoli.
Poiché questo processo va avanti da più di duecento anni, la società in cui viviamo è una società nella quale il rapporto sociale capitalistico ha invaso l’intero ambito sociale e modella l’intero vivere collettivo. Ma incidere sul meccanismo della crescita significa destrutturare gli ambiti sociali che su di esso si reggono: e poiché, appunto, esso ormai pervade l’intera società, significa destrutturare l’intera società.
Un pensiero della decrescita che voglia essere storicamente serio, deve quindi essere incluso nel progetto di una forza squisitamente politica, ed ha bisogno di pensare, tra i suoi fini, anche quello di rimodellare alcuni aspetti dello Stato che consentano di fronteggiare le ricadute negative, in alcuni casi devastanti, di questa destrutturazione.
Proviamo allora a delineare alcune delle difficoltà che incontrerà la transizione ad una società della decrescita, e alcune idee per fronteggiarle.
Per questo è necessaria ancora una premessa. La transizione non può che partire dalla società che ci è storicamente presente, quella, cioè, della crescita. Non si può, quindi, pensare di attivare il circolo virtuoso della decrescita facendo immediatamente leva sui benefici che essa apporta, perché tali benefici possono prodursi solo in assenza di potenti meccanismi sociali avversi, quali sono quelli operanti nella società presente.
Quali saranno dunque le difficoltà contro le quali si scontrerà un percorso di transizione alla decrescita, ammettendo che emerga una volontà di avviarlo come volontà politica, e non come illusione di una diffusione spontanea di nuove tecniche e nuovi comportamenti?
La difficoltà principale non sarà la penuria di beni necessari. Nella nostra società consumista e sprecona esistono molti tipi di produzione che possono essere ridotti, avviando un processo di decrescita, senza toccare la produzione dei beni fondamentali. Le armi sono l’esempio più ovvio ma ce ne sono altri. Una produzione alimentare indirizzata al consumo di cibi locali e stagionali farebbe di molto diminuire le necessità di trasporto e di impacchettamento dei cibi, e tutta una serie di attività economiche legate a queste sfere potrebbero decrescere senza nessuna incidenza sull’offerta di cibo. Ugualmente una manutenzione degli edifici esistenti, finalizzata al loro riuso, farebbe decrescere la produzione edilizia senza creare alcuna penuria di case abitabili, ed anzi aumentandone la quantità disponibile.
La difficoltà economica principale nell’avviare un processo di decrescita non sarà quindi legata alla penuria di beni: sarà invece legata all’occupazione. All’interno di una società regolata dal meccanismo della valorizzazione del capitale, infatti, la decrescita in linea di principio ha, rispetto all’occupazione, gli stessi effetti di una recessione. Quest’ultima affermazione è una conseguenza del tutto logica, e anche banale, dei meccanismi della nostra società della crescita, e della definizione stessa di decrescita.
Vale però la pena di soffermarsi su di essa e di argomentarla, perché essa è in parte oscurata, proprio negli ambienti intellettuali più vicini al pensiero della decrescita, dall’idea che il problema occupazionale del quale stiamo parlando possa essere risolto grazie allo sviluppo di una produzione nata dalla domanda di beni orientati alla salvaguardia dell’ambiente, al risparmio energetico e in generale alla conversione in senso ecologico dell’intera società. Ad esempio, la riconversione del patrimonio abitativo secondo criteri di risparmio energetico creerebbe ovviamente numerosi posti di lavoro. Si tende a pensare che la disoccupazione creata dalle iniziative di decrescita possa essere riassorbita dai nuovi posti di lavoro creati della riconversione ecologica dell’economia e della società.
In realtà un riassorbimento della disoccupazione creata dal superamento dell'economia della crescita può avvenire soltanto attraverso un potenziamento del ruolo e dell'intervento dello Stato nella sfera economica. Questa impostazione confligge con l'idea, molto diffusa tra i sostenitori della decrescita, che la decrescita stessa consista in una riduzione congiunta del ruolo dello Stato e del mercato.
Dobbiamo quindi approfondire l’analisi di questa impostazione, e lo faremo nella seconda parte del nostro intervento. Vediamo intanto di argomentare il fatto che, se lasciamo fare ai meccanismi del mercato, la decrescita produce disoccupazione. Ammettiamo che la decrescita faccia sparire un certo numero di imprese che, vendendo annualmente beni o servizi per un importo pari a 100 unità monetarie, impiegano 10 unità di lavoro[1].
Abbiamo allora un problema di disoccupazione, e speriamo di riassorbirlo grazie a nuove imprese che producano beni e servizi compatibili con un processo di conversione ecologica della società. Ma quale sarà il volume delle vendite di queste nuove imprese? Se vogliamo che le nuove imprese “ecologiche” impieghino le 10 unità di lavoro, a parità di altre condizioni, anche esse dovranno vendere beni e servizi per 100 unità monetarie. Se ci riescono, abbiamo forse risolto i nostri problemi? No, perché in tal caso abbiamo salvato l’occupazione, abbiamo avviato una conversione ecologica, e questo va benissimo: ma non c’è stata nessuna decrescita.
Tanto era il PIL prima, tanto è adesso. Se vogliamo decrescita, bisogna immaginare che il volume delle vendite delle nuove imprese sia minore di 100, diciamo 50: ma in tal caso le nuove imprese potranno occupare solo 5 unità di lavoro, e avremo quindi una disoccupazione non riassorbita pari alle restanti 5 unità di lavoro[2].
In definitiva, se si esclude un intervento statale e si lascia fare alle leggi del mercato, la conclusione è univoca: se c’è decrescita c’è disoccupazione, e se c’è una riconversione ecologica che salvi l’occupazione vuol dire che non c’è decrescita.
Per capire come si possa risolvere questo problema, occorre riprendere l’elemento di verità che è presente nella tesi che abbiamo testé criticato, quella cioè secondo cui è sufficiente il passaggio ad una produzione riconvertita in senso ecologico. L’elemento di verità è che esistono grandi esigenze sociali per soddisfare le quali è necessario il lavoro di tutti i disoccupati che l’inizio di decrescita potrebbe creare.
L’elenco di simili esigenze sociali, in un paese come l’Italia, è lunghissimo: c’è bisogno di un grande lavoro di manutenzione di infrastrutture fondamentali come le ferrovie, c’è bisogno di riqualificare il patrimonio edilizio, in particolare rendendolo più adeguato in termini di risparmio energetico, c’è bisogno di un riassesto del territorio da un punto di vista idrogeologico, c’è bisogno di bonificare le aree inquinate dagli scarichi illegali di rifiuti, c’è bisogno di cambiare radicalmente il ciclo dei rifiuti in modo da eliminare alla radice il problema stesso. E si potrebbe continuare a lungo.
Lavoro ce n’è dunque moltissimo, per soddisfare una serie di bisogni sociali fondamentali. Ma per le ragioni sopra addotte, il mercato non può offrire il salario per pagare questi lavoratori. D’altra parte, non possiamo nemmeno fare affidamento sui meccanismi che sarebbero tipici di una società della decrescita, dicendo per esempio che i lavoratori potrebbero accontentarsi di lavori a tempo e salario parziali procurandosi una parte dei beni col loro salario e un’altra parte tramite una rete di scambi non mercantili.
Non possiamo dare questa risposta perché essa presuppone che sia già instaurata una società della decrescita, e questo è appunto ciò che non può essere presupposto nella fase della transizione. Per capirci, se domani un gruppo di operai viene licenziato perché si chiudono le fabbriche di armi, o se ne riduce grandemente la produzione, è chiaro che la risposta al loro dramma non può essere quella di farsi l’orto per scambiarne i prodotti con altri, o cose del genere: perché questa risposta avrebbe un senso all’interno di una società della decrescita già avviata, ma domani non c’è ancora una società della decrescita, c’è ancora la società della crescita, e dentro la società delle crescita non esistono ancora i circuiti di scambi non mercantili che renderebbero sensata la risposta sopra accennata.
E’ allora evidente che, se non si può fare affidamento sul mercato, che anzi in presenza di decrescita genera disoccupazione, né sui circuiti della decrescita, che non si sono ancora dispiegati, c’è un unico modo nel quale si può riassorbire la disoccupazione creata dalle prime misure “decresciste” di politica economica del periodo della transizione: l’intervento dello Stato.
L’intervento dello Stato è necessario per due motivi: in primo luogo, il passaggio di grandi gruppi di lavoratori da un tipo di lavoro ad un altro ha ovviamente bisogno di misure giuridiche e amministrative e di strumenti organizzativi che solo lo Stato può fornire, nelle condizioni date. In secondo luogo, e questo è il punto più importante, se il mercato non fornisce un salario a questi lavoratori, esso dovrà essere fornito dallo Stato. In sostanza, la disoccupazione creata dalle prime misure “decresciste” dovrà essere riassorbita tramite assunzioni statali dei lavoratori disoccupati. Lo Stato deve provvedere ad organizzare i nuovi lavori in risposta ai bisogni sociali sopra accennati, e deve inoltre provvedere agli stipendi dei nuovi lavoratori.
Si pone allora, ovviamente, il problema di reperire le risorse necessarie per finanziare la nuova occupazione creata dallo Stato. Nel discutere di questo problema porteremo argomenti sotto qualche aspetto simili ad alcuni di quelli che vengono proposti all'interno di un'economia dello sviluppo, in particolare in relazione alla crisi economica attuale. La cosa non deve sorprendere, perché il problema dell'occupazione, nella fase iniziale che è quella della quale stiamo parlando, si pone in relazione a quello dello sviluppo, e perché recessione e decrescita hanno alcuni (ma solo alcuni!) aspetti in comune, specie se vengono prese in considerazioni nell’ottica del senso comune, dominato dall’immaginario della crescita.
E’ quindi inevitabile che certe misure secondo noi necessarie per combattere gli elementi negativi insorgenti nella transizione ad una società della decrescita possano assomigliare a misure proposte per combattere l’attuale crisi economica.
La prima risposta al nostro problema attuale (dove trova lo Stato le risorse per assumere i disoccupati?) è naturalmente quella dello stampare denaro. Oggi l’Italia non lo può fare, perché il nostro paese ha ceduto la propria sovranità monetaria alla BCE, ma si potrebbe appunto pensare che una precondizione politica per la transizione alla decrescita sia il recupero della sovranità monetaria e l’uscita dell’Italia dalla zona euro, e forse dall’Unione Europea.
Purtroppo questo non sarebbe sufficiente. Se anche l’Italia recuperasse la sovranità monetaria, lo stampare denaro per pagare i salari di nuove, massicce assunzioni statali dei disoccupati creerebbe inflazione.
Il nesso tra l'aumento della carta-moneta circolante e lo sviluppo dell'inflazione non è certo automatico. Keynes, nel suo famosissimo libro Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, pubblicato nel 1936, ha dimostrato che una maggiore domanda di beni, attivata da un aumento della quantità di moneta circolante, non crea inflazione nella misura in cui, nel sistema economico, esistono capacità produttive non utilizzate.
Un famoso economista keynesiano, Samuelson, nel suo libro del 1948, Economia, ha però dimostrato che un aumento della quantità di moneta circolante, in determinate circostanze, può generare un aumento dei prezzi anche in presenza di capacità produttive non utilizzate.
Non c'è qui lo spazio per addentrarci in queste questioni di teoria economica, e quindi diciamo in maniera qui necessariamente dogmatica (che potrà, comunque, essere oggetto di spiegazione successiva) che, nelle circostanze dell'Italia attuale, e nel contesto dell'attuale situazione economica globale, una significativa immissione di liquidità nell'economia italiana genererebbe inflazione. L'inflazione monetaria non è necessariamente un fenomeno negativo per l'economia reale, che può, in certi casi e in una certa misura, tollerarla, e dalla quale può essere stimolata ad aumentare l'occupazione. Nell'attuale sistema dei cambi, però, l'inflazione genera la svalutazione della moneta del paese in cui si sviluppa. Ciò significherebbe, per l'Italia, dover pagare a prezzi molto più cari i beni di importazione. Anche qui, in una situazione di decrescita già avanzata, il problema non sarebbe grave, perché una società della decrescita riduce grandemente gli scambi commerciali con l’estero.
Ma all’inizio della transizione, in una situazione nella quale l’Italia dipende fortemente dalle importazioni di energia (per fare solo un esempio), lo scatenamento dell’inflazione avrebbe come effetto indiretto un aumento paralizzante dei costi di attività economiche ancora necessarie. Lo stampare denaro non è quindi la soluzione del problema. Nemmeno lo è il ricorso al debito di Stato: in generale esso è uno strumento da utilizzare con cautela per i suoi rischi di automoltiplicazione (i debiti pregressi possono essere pagati soltanto con nuovi debiti, il cui costo è maggiore, sia perché vi si devono aggiungere gli interessi da pagare, sia perché le aliquote di tali interessi crescono al crescere del debito), e nella situazione attuale delle finanze pubbliche italiane è ovviamente impossibile pensare ad un ricorso massiccio ad esso.
Le risorse aggiuntive potrebbero allora essere trovate attraverso il prelievo fiscale? Vi è qui un problema evidente: la decrescita è decrescita del Pil, e ciò che il fisco preleva è sempre una quota del Pil, per cui se diminuisce questo diminuisce anche quello, a parità di altre condizioni. Un aumento del prelievo fiscale a Pil decrescente è possibile solo in due modi: o con l’aumento delle aliquote esistenti, o con uno spostamento del carico fiscale.
Le aliquote dell'imposta sul reddito attualmente vigenti, dopo le controriforme di Prodi e di Berlusconi, colpiscono più duramente i redditi bassi che quelli elevati. Un aumento delle aliquote sui redditi più elevati, che le riportasse ai livelli vigenti nell'Italia democristiana, sarebbe doveroso per ragioni di giustizia, e per rispettare la norma costituzionale che esige la progressività delle imposte, ma non sarebbe risolutivo. Negli ultimi trent'anni sono, infatti, continuamente aumentate le ricchezze delle classi sociali più elevate, con la creazione di enormi patrimoni nati spesso dalla speculazione finanziaria.
Ciò che occorre è quindi estendere il prelievo fiscale a questi patrimoni, perché soltanto in questo modo si può ripristinare una situazione di giustizia, ribaltando la redistribuzione dei redditi a favore dei ceti superiori avvenuta negli ultimi trent'anni, e si possono ricavare le risorse necessarie per finanziare la nuova occupazione. Un tale spostamento del carico fiscale sulle classi più elevate esige due cambiamenti del sistema del prelievo tributario: il passaggio dalle imposte dirette a quelle indirette e il passaggio dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio.
Entrambe queste proposte devono essere spiegate, in particolare la prima. In effetti, storicamente il passaggio dalle imposte indirette a quelle dirette (cioè il passaggio inverso a quello che noi proponiamo) ha avuto un indubbio effetto positivo, perché ha permesso in sostanza la progressività dell’imposizione fiscale. Il fatto di tornare all’imposta indiretta può sembrare un regresso, e occorre quindi precisare il senso di quanto diciamo. Non stiamo naturalmente proponendo di tornare alle imposte sui generi di largo consumo e di prima necessità. Ci stiamo riferendo a imposte che colpiscano merci la cui produzione è da scoraggiare, nell’ottica di una società della decrescita.
Così, dovrebbero essere pesantemente tassate tutte le merci di lusso e tutte quelle merci la cui compravendita è finalizzata a operazioni speculative sui mercati finanziari. Infine, dovrebbe essere pesantemente tassata la pubblicità. Questo tipo di tassazione avrebbe naturalmente l’effetto di ridurre la produzione dei beni tassati, ma questo sarebbe un effetto collaterale altamente positivo. Ciò che differenzia una politica economica per la decrescita da una lotta alla recessione è, fra l’altro, proprio il fatto che certe produzioni devono venire scoraggiate e tendenzialmente abbandonate.
Questo ovviamente implica che le entrate di queste imposte sono destinate a ridursi. Si tratta di entrate che devono essere utilizzate soprattutto per finanziare grandi progetti di trasformazione dell’economia in senso decrescista.
La tassazione delle transazioni finanziarie risponde a un criterio elementare di giustizia, ma ha un senso soltanto all'interno di una società della crescita, nella quale il capitale che non trova sbocchi produttivi sufficienti alla sua valorizzazione si sposta sempre più sulla speculazione finanziaria. Ciò risulta chiarissimo dagli studi compiuti del secolo scorso da un grande economista non adeguatamente apprezzato, Hyman Minsky. Egli ha dimostrato come lo sviluppo di una sempre più ampia, articolata e complessa strumentazione finanziaria, da un lato sia non un semplice artificio, ma una necessità dello sviluppo capitalistico, e, come, però, dall'altro lato, sia l'elemento generativo delle sue crisi sempre più devastanti[3].
Sulla base di questa analisi si può capire come, nella prospettiva di un'economia della decrescita, non possa essere accettato lo sviluppo di una finanza sovrapposta all'economia reale, ancorché utilmente tassata, e come, d'altra parte, la scomparsa di tale finanza faccia precipitare la crisi dell'economia della crescita, e costituisca, quindi, un elemento decisivo per l'avvio della decrescita. Si tratta, in sostanza, di proibire legislativamente tutto il sistema degli strumenti finanziari derivati e delle operazioni ad alta leva finanziaria.
Basterebbe, per una tale proibizione, ritornare alle legislazioni bancarie e finanziarie esistenti fino alle soglie degli anni Novanta, da cui il cosiddetto sistema bancario ombra è stato esentato con una serie di disposizioni specifiche (negli Stati Uniti, ad opera dell'amministrazione Clinton).
Occorre, poi, come si è detto, un passaggio dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio.
Le imposte sul reddito non sono lo strumento più adatto per trarre risorse dalle classi ricche, perché ormai esistono molti modi per eluderle col rendere difficile l’accertamento del reddito. E’ vero che esistono pure molti modi per occultare i patrimoni, ma una tassa sul patrimonio presenta i seguenti vantaggi: in primo luogo, spesso il patrimonio ha una natura fisica (ville, yacht) che lo rende più difficile da occultare.
In secondo luogo, se anche un patrimonio mobile può essere occultato, è comunque più difficile occultare un grosso patrimonio rispetto a un reddito; infine, una volta individuato un grosso patrimonio, esso non può più sparire da un anno all’altro e ad esso si può quindi ritornare negli anni successivi, mentre un reddito, per esempio di un libero professionista o di un imprenditore, può variare grandemente da un anno all’altro.
Un’imposta sul patrimonio, per avere effetti redistributivi, deve essere globale (cioè riguardare tutto il patrimonio) e ordinaria (cioè permanente). Date queste caratteristiche, l’aliquota può e deve essere molto bassa (non maggiore dell’1 per cento). Sarà soprattutto questa tassa patrimoniale a finanziare i salari dei nuovi assunti dallo Stato, combattendo così la disoccupazione indotta dalla decrescita.
Un’ultima fonte di entrate per lo Stato, da indirizzare alle nuove assunzioni, potrà infine venire dalla diminuzione di numerosi capitoli di spesa: le spese militari (in particolare quelle per le missioni militari all’estero), i costi della casta politica, che devono diminuire tagliando il numero di membri della casta e diminuendone grandemente gli emolumenti, e soprattutto i costi della corruzione in cui sono coinvolti politici e imprenditori.

Passiamo adesso all’ultima questione che affrontiamo in questo scritto. Quale tipo di occupazione dovrebbe essere organizzata dallo Stato con le risorse recuperate nei modi sopra descritti? Qui si vede come la transizione alla decrescita si differenzi dal contrasto alla recessione tipico delle politiche economiche indirizzate allo sviluppo.
Infatti, da un punto di vista di lotta alla recessione, se si sceglie di adottare una politica “keynesiana” di sostegno statale all’occupazione, non ha molta importanza quale sia l’occupazione che viene finanziata. Dal punto di vista della decrescita la cosa invece è molto importante. E’ chiaro che bisognerà finanziarie quelle forme di occupazione che servono a indirizzare la società nella direzione della decrescita. Per far questo, però, dobbiamo avere un’idea delle trasformazioni economiche attraverso le quali soltanto può dispiegarsi una società della decrescita.
E’ nostra opinione che una società della decrescita possa sorgere a partire dall’attuale società della crescita grazie alla creazione di una estesa rete di servizi sociali pubblici e gratuiti, che sarebbe all’inizio finanziata dallo Stato, nei modi sopra indicati.
Il punto fondamentale sta nel fatto che tali servizi sociali diventerebbero parte del reddito reale dei cittadini, e questo permetterebbe di mantenere relativamente basso il loro reddito monetario. Così, se ciascuno avesse a disposizione, offerti gratuitamente dallo Stato, servizi come trasporti, assistenza sanitaria, luoghi di ricreazione e svago come palestre e parchi, e così via, non avrebbe bisogno di incrementare il proprio reddito monetario per pagarsi quei servizi. E poiché una parte notevole della popolazione sarebbe coinvolta nella produzione di questi servizi, un tale sistema di “Welfare State decrescista” potrebbe venire sempre più attivato da uno scambio non mercantile di servizi, appunto secondo le idee fondamentali della decrescita. Diventando così un elemento di una organizzazione sociale fondata sulla decrescita, questa rete di servizi sociali si inscriverebbe all’interno di una rete più vasta di scambi non mercantili, riducendo quindi progressivamente le necessità del finanziamento.
I lavori pagati dallo Stato, all’inizio del periodo di transizione, dovrebbero indirizzare la società in questa direzione. Così una grande opera di manutenzione e rafforzamento della rete ferroviaria (che andrebbe naturalmente rinazionalizzata) dovrebbe favorire il passaggio dal trasporto privato al trasporto pubblico, mentre una grande lavoro di riadattamento del patrimonio edilizio, assieme al suo miglioramento in termini di consumi energetici, permetterebbe di offrire a tutti i cittadini case ad elevato risparmio energetico senza ulteriori consumi di territorio.
La produzione automobilistica, per fare un altro esempio, dovrebbe essere riconvertita alla produzione di mezzi per il trasporto pubblico, che sarebbero poi venduti alle amministrazioni locali: in questo modo non si ha in senso proprio decrescita (si tratta pur sempre della produzione e della vendita di una merce, l’autobus invece dell’auto, e di lavoratori che vengono pagati con un salario monetario), ma si creano le condizioni per una politica di decrescita come offerta di trasporto pubblico gratuito in sostituzione del trasporto privato.
Le linee generali che abbiamo fin qui tracciato indicano sono, naturalmente, solo idee generali, che avrebbero bisogno di essere discusse e articolate. Si potrebbe partire da qui per impostare il confronto, che noi giudichiamo necessario, fra i teorici della decrescita e gli economisti critici dell’ortodossia neoliberista.

Genova-Pisa, gennaio 2011.

prossimamente a Sassos





13 giu 2011

città e decrescita

Di Serge Latouche, 13 giu, da www.eddyburg.it 
La Carta.org un interessante articolo nel quale il filosofo ed economista esamina la crisi della città e ne argomenta la soluzione ; «La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico»

Il disastro urbano della società della crescita
Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono palesemente agli architetti ed agli urbanisti. Abbiamo una quantità di architetti e urbanisti di ottima qualità [compresi quelli del campo dell’abitare ecologico] ma questo non impedisce il caos urbano e paesaggistico attuale nel quale il mondo è rinchiuso. Il problema è che questa architettura è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o di palazzi prestigiosi, ma è molto deludente nel’insieme. Fallisce «a fare città» e sopratutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto urbano, le mitage du paysage [tarmatizzazione del paessaggio], la cementificazione del territorrio, la crescita dello squallore del quadro della vita e la distruzione del’ambiente, per non parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Tuttavia questi architetti e urbanisti ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi rimedio. Siamo di fronte a una forma di schizofrenia. Questo disastro urbano è stato constatato anche dal grande architetto portoghese, Alvaro Siza. «La cosa più grave è la devastazione del territorio, lo scacco di questa disciplina è l’uso della terra… Noi assistiamo alla fine di un ordine delle cose che prefigura forse un’altra cosa, che noi non connosciamo ancora. E, senza dubbio questa era inevitabile. Ma nell’immediato, la qualità è emarginata e siamo di fronte a un disastro». Noi viviamo ancora nella città produttivista, pensata e strutturata in funzione del’automobile sotto forme che pretendono di essere razionali [basta pensare alla città radiosa di Le Corbusier] con le sue segregazionì degli spazi, sue zone industriali, i suoi quartieri residenziali senza vita.
Si è potuto parlare giustamente della distruzione delle città in tempo di pace con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare dei centri commerciali, l’estensione delle zone residenziali, l’emergere dei gratttacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la proliferazione dei non-luoghi [stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.]. L’asfissia del traffico automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla «super» o «iper» modernità [parola che trovo più giusta di «post»-modernità]. Questo è il trionfo della brutezza.
Per poter abozzare ciò che potrebbe essere l’urbanismo e l’architettura in una sociétà della decrescita, bisogna capire prima, che cos’è la società della decrescita e le suoi implicazioni architetetoniche e urbanistiche, poi si potrà precisare a che cosa somiglierebbere la città decrescente.
Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane
Che cosa è la decrescita? La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità di abbandonare il progetto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da una economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della Crescita [con la «C» maiuscola] non distrugge soltanto la città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio. Questo è l’esplosione del’urbano, secondo la sociologa Tiziana Villani. Si tratta di un processo di artificializzazione della vita. L’uomo pretende di ricreare il mondo meglio di Dio e della Natura. Gli Ogm, le nanetecnologie, la clonazione, l’allevamento industriale dei pesci, ecc. Ne sono una illustrazione. L’esito finale sarebbe il cyberman, l’uomo artificiale. Ora, il resultato più visibile è la transformazione del mondo reale, del mondo nel quale siamo condannati a vivere, in discarica o pattumeria.
Il fallimento di Dubaï e della sua torre di ottocento metri inabitata, constituisce un simbolo del fallimento del sogno americano e del suo urbanismo. Il progetto della torre di un chilometro di altezza non sarà probabilmente mai costruito. La citta produttivista appartiene al passato, ma la distruzione del mondo si prosegue.
Ovviamenteil fine della società della decrescita non è un capovolgimento caricaturale consistente nel predicare la decrescita per la decrescita. Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita fa cadere le nostre società nello sconforto a causa della disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può ben immaginare quale catastrofe costituirebbe un tasso di crescita negativo! Così come non c’è niente di peggio che una società fondata sul lavoro senza lavoro, niente è peggio di una società di sviluppo senza sviluppo. Rigorosamente parlando, più una a-crescita [come si parla di a-teismo] che una de-crescita. Si tratta precisamente dell’abbandono di una fede e di una religione: quella dell’economia.
Il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto «R»: rivalutare, ridifinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti scatenano un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Non si tratta di un programma, siamo al livello di concezione. Il progetto della società della decrescita si articola dunque intorno al circolo virtuoso delle otto «R». Si può dire delle otto «R» che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più «strategico» delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti gli comandamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone. Il problema della città e del territorio ormai distrutti e tutto da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del mondo lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale. Il disastro urbano è al medesimo tempo un disastro rurale e paesagistico. Ma, nell’ottica della costruzione di una serena società di decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. La parola chiave è l’autonomia.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Si tratta di Riterritorializzare [Alberto Magnaghi], ritrovare un sito e ri-abitarlo.
Tuttavia, l’architettura ecoresponsabile o l’habitat bioclimatico non è la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. La «città sostenibile» promossa dalla Carta d’Aalborg [1994] è più una forma di modernizzazione ecologica del capitalismo [greenwashing] che un vero rimedio al disastro del produttivismo. Gli ecoquartieri – quartiere Vauban a Friburgo [Germania], Houten [periferia di Utrecht, 40.000, in Olanda] e di Bedzed [Beddington zero energy development] nella città di Sutton a sud di Londra – sono alla fine delle isole di sostenibilità dentro un’mare di inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Il fallimento e lo scacco clamroso delle «ecocittà » cinesi sono sintomatiche. I rari progetti, lanciati con trombe e fanfare come Chongming, sono nel’impasse. L’ecocittà di Dongtan à Chongming di fronte a Shanghai è stata promossa con forza dal 2006-2008 per fare vetrina ecologica all’Esposizione Universale. Il padrino del progetto è stato eliminato nel 2008 per corruzione dopo di che il progetto, mal conçepito, è stato abandonnato. Gli altri progetti [Huangbaiyu e Tianjin] non vanno bene. L’economia ha vinto sull’ecologia. In questi progetti si tratta sempre di abitare meglio ma non di cambiare il rapporto con la natura, il paesaggio e con il consumismo. I tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni [Geddes], Broadacre city [Wright], città compatta, città distesa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita.
Il funzionalismo formalizato nella Carta di Athene da Le Corbusier [1943] che pretendeva di lottare contro il «disordine urbano» ha generato finalamente un disordine più grande al prezzo di una esplosione dell’impronta ecologica delle città. Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis. Questo sembra essere il destino de l’iperpolis virtuale, constituita dalla finanza e dai media globalizzati.
La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo ripetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti ne degli urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità. Solo con l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.
A che cosa somiglierà la città decrescente?
La città decrescente dovrebbeessere una città con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione]. Piutosto di sognare la construzione di città nuove, bisognerà imparare ad abitare le città in modo diverso, questo al Nord come al Sud. La città consuma bassa entropia [energia, risorse, cibo, ecc.] e esporta massiciamente alta entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che consuma una superficie «fantasma» molto superiore alla sua superficie reale.
[...]
Più la citta è estesa, «funzionale» [Le Corbusier], più questa impronta è forte. Quello che non si vuole dire che bisogna verticalizzare le città. Le torri sono dei divoratori di energia e non accrescono veramente la densità. Bisogna sicuramente reinventare una città più «compatta». L’habitat individuale, isolato, anche pensato ecologicamente bene, è una eresia urbanistica, dal punto di vista della decrescita, perchè ogni anno spariscono ettari di terre agricole sotto l’asfalto e il cemento. La costruzione ragruppata e l’alloggiamento collettivo dimostrano una efficacia energetica più alta.
Invece delle megalopoli attuali, bisogna imaginare una città ecologica, fatta di villagi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano una energia rinovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroverano cosi il piacere di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere di abitare il mondo è quindi un imperativo.
Si può pensare a organizzare delle bioregioni urbani. La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forta capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne [o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività]. Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o moltipolare. Si potrebbe considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Murray Bookchin. «La città, che da secoli ha funzionato secondo la formula del ‘luogo dove tutto si scambia’ – scrive Yona Friedman – diventerà un’arca di Noè destinata ad assicurare la sopravivvenza della specie nonostante il diluvio. Una grande autonomia, una grande autarchia saranno dunque necessarie». Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e avranno abbandonato il produttivismo. Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia rinnovabile.
«Saremo noi un giorno capaci – si chiede Christophe Laurens, architetto e paesaggista – abitare poeticamente le torri degli uffici, gli stadi, gli incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi d’attrazione, tutto ciò quello che l’architetto olandese Rem Koolhaas chiama i junkspace?». La risposta viene forse da Yona Friedman: «Per trasformare il male in bene – dice – dovremo disfarci del condizionamento che abbiamo subito». Si tratta di abitare diversamente la stessa città. Pensare al Paris [Parigi/scommessa] della decrescita.
In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la cità attuale dalla quale sarebbe stati eliminati la publicità, le auto e la grande distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione publica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Una riconversione sarà necessaria ma anche una certa disindustrialisazione. Il risultato di questa disindustrializzazione realizzata, grazie a degli attrezzi soffisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre altrimenti. Anche se la parte autoprodotta non è totale, essa è comunque importante.
Nel suo bel libro «Manifesto per la félicita. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere» [Donzelli, 2010], Stefano Bartolini presenta così la città «relazionale» che corrisponde quasi-esattamente al progetto della decrescita: «La città relazionale è uno degli aspetti cruciali della mia proposta di assegnare ai bambini una priorità ben maggiore di quella attuale perché essi sono il paradigma dello stretto legame tra spazio e mobilità nel determinare l’esperienza relazionale. I bambini devono disporre di spazi pedonali di qualità vicino a casa e della possibilità di arrivarci da soli. Gli elementi chiave di una città relazionale sono: l’auto privato deve essere drasticamente limitata come misura strutturale, per fare in modo che tutti i cittadini usino i trasporti publici; la densità di popolazione deve essere alta; ci devono essere molte piazze, parchi, isole pedonali di qualità, centri sportivi ecc.; le aree pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di un lago, un fiume, un ruscello, un canale; devono attraversare la città in modo da formare una rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più possibile marciapiedi spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà publica deveno circondare la città, per costruirvi parchi e case16».
E per il Sud? Bisogna partire dalla realtà. Due miliardi di persone vivono nei baraccopoli [bidonvilles] o delle favelas autoconstruite e non accederanno mai alla città produttivista. La visione di Yona Friedman dell’architettura e dell’urbanismo di sopravivvanza è certamente più realista per il Sud, e inoltre in coerenza con la città decrescente al Nord. La città povera è fatta di un insieme di bidonvillages. «Il bidonvillage – dice Friedman – è la società anarchica dei poveri e non ha che fare con una scelta ideologica o politica; questo tipo di società si è costituito semplicemente perché l’esperienza ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori probabilità di sopravvivenza».
Finalmente, «La risposta dell’architettura di sopravivvenza ai problemi correnti sarebbe dunque: costuire meno, ma imparare ad abitare in altro modo; sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i nostri criteri di ‘commestibilità»; vivere nelle città in cui abitiamo, ma organizzarci con minori spostamenti e vivere all’interno del nostro villaggio urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più frequentati da noi perché lontani».
In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita. Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità di fare dei passi avanti nella politica a questo livello. Si può menzionare: la Rete del nuovo municipio, la rete delle città lenti [Slow cities], le città in transizione [Transition towns], le Città post carbone, le numerose esperienze di città virtuose come l’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri19, le esperienze di Barjac20 e di Correns, tutte collegate con iniziative più piccole [i Gruppi di acquisto solidale, Amap ecc]. `
Il movimento delle città in transizione [Transition towns] è forse la forma di costruzione dal basso che si avvicina di più a una società della decrescita. Queste città secondo la carta della rete ricercano l’autosufficienza energetica nella prospettiva della fine delle energie fossili; più generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in prestito dalla fisica, passendo attraverso l’ecologia scientifica, può essere definito come la capacità di un’ecosistema di resistere ai cambiamenti della sua ambiente21. Per esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno affrontare la fine del petrolio, l‘aumento della temperatura, e tutte le catastrofe prevedibili? La risposta dell’esperienza ecologica è che se la specializzazione consente di migliorare le performanze in un’campo, rende più fragile la resilienza dell’insieme. La diversità, al contrario, rinforza la resistanza e le capacità di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la policultura, l’agricultura di prossimità, piccole unità artigianali, moltiplicare le sorgenti di energia rinovabile, tutto questo rinforza di consequenza la resilienza.
Per concludere, si possono riprendere due citazioni di architetti
Enrico Frigerio [in Slow Architecture]: «L’architetto esteta, creatore di forme, credo sia oggi quasi anacronistico».
Yona Friedman: «Dopo tutto, stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può anche essere la Festa».
In sintesi. La città decrescente, primo passo verso una società di abbondanza frugale, preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la base di tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico all’economia, ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e dunque l’integrazione] e anche la solidarietà, fortificherà la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress. L’impatto sul paesaggio, anche se non fosse l’oggetto di una politica specifica, sarà necessariamente positivo.
[Questo saggio è il testo della relazione di Serge Latouche al meeting internazionale, il 19 e 20 maggio a Roma, dal titolo «The architecture of well tempered environment - Un'armonia di strumenti integrati», promosso dall'Unione internazionale degli architetti e dall'Union internationale des architectes, architecture and renewable energy sources].