di Barbara
Spinelli, 16 mar.
Ci
sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione
oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare
all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È
il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e
non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di
quattro reattori nucleari a Fukushima.
All'orrore
spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che
spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono
momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in
quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti:
all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura,
questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non
a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il
filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza
l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire
(questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male
con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto
sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: "Diventa
necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti
a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare
interesse etico che ne risulta"
(Il principio di responsabilità, Einaudi '90).
Alla
luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi -
come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo
negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari. Obama
e Angela Merkel dicono ben altro: "Non
si può fare come se nulla fosse".
Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo
economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate
come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine
"catastrofe", preferendo il meno allarmante "incidente grave".
Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a "non farsi prendere dalla paura", senza sapere di che parlava. Non sono i
soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per
buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power
Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel
2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.
Apocalisse
è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma
apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano
divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che
chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche
motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero
arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa,
che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi
simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto
la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.
In
Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici
profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari
rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a
Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la
solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare
che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì,
in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che
impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come
morissero in piedi.
Non
è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il
loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia
quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di
interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie
quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare
poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha
già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s'è fidata della
tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?
Ci
sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite
ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto
ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le
teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d'un mondo: fondato
sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no. La modernità
iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto
un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: "What ever is, is right":
tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla
liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e
scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz.
Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire:
avanziamo "nel migliore dei
mondi possibili".
Cadde
anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix
culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro
o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant
sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la "rabbia del mare"),
lo sguardo di Voltaire: "Elementi,
animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra". Ansioso di conforto, Rousseau scrisse
incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: "Non
sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati
sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più
grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto
più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in
lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa". Ma anch'egli pone domande che solo
l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte
6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il
terremoto e conclude: "Bisogna
coltivare (meglio) il proprio giardino",
dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo
il 1755: "legno storto", "mai
più grande dell'uomo".
Il
Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima
si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e
letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste
ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di
Voltaire. I giapponesi sapevano già che "il
male è sulla terra", e quel che
può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che
affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua
letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui
s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa:
strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza
ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: "guai! guai!")
che vola verso lo schianto.
Rivedere
Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha
dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il
2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a
quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami -
visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e
omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si
barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche
parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è
un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla
crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano
informi ombre color carbone. Gridano "Aiutami!", nel momento in cui i giovani morenti
lasciano in eredità quest'effigie di sé.
È
la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un
muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo
incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il
passato al presente; e ci tiene svegli, forse.