Verso il default, questione di tempo
di GUIDO VIALE, 17 agosto 2011
Gli alti e bassi, ma sostanzialmente bassi, dei cosiddetti mercati,
ci fanno capire che nei prossimi anni, e per molto tempo ancora, non ci
sarà alcune «crescita»: né in Italia (dove la manovra ha messo una
pietra tombale su qualsiasi velleità di rilancio economico), né in
Europa, Germania compresa: che sconterà presto il disastro a cui sta
condannando metà dei suoi partner commerciali. Meno che mai negli Stati
Uniti; di conseguenza soffrirà anche l’economia cinese, dovesostituire
la domanda estera con quella interna non è così facile. Nemmeno il
Brasile se la passerà più molto bene, mentre l’economia giapponese è
scomparsa dai radar.
In Italia, e in molti altri paesi senza «crescita», il pareggio di
bilancio diventerà irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non
basta per colmare i deficit. Così gli interessi si accumulano, anno dopo
anno, e il debito cresce, facendo aumentare a sua volta i tassi, e con
essi il deficit. Anche se prescritto dalla Costituzione (con una norma
che seppellisce tutto il pensiero economico originale del Novecento) il
pareggio di bilancio diventa una chimera.
Per anni i titoli di Stato avevano offerto ai cosiddetti
risparmiatori – cittadini che avevano un avanzo di reddito a
disposizione – una specie di cassaforte dove mettere al sicuro il loro
denaro. Ma da tempo, e soprattutto con la liberalizzazione dei mercati
finanziari, quei titoli, ormai nelle mani di grandi operatori
internazionali (compresi quelli che oggi gestiscono i fondi dei
risparmiatori), sono stati trasformati in assets su cui lucrare, giorno
per giorno, in base a variazioni dei rendimenti che chi quei titoli li
ha emessi non può più controllare. Non è vero, come ci raccontano, che
la spesa pubblica supera le entrate fiscali: in Italia non lo fa da
tempo. Sono gli interessi accumulati ad aver portato il bilancio fuori
controllo: è il meccanismo tipico dell’usura (quello dei famigerati
cravattari); a cui gli Stati di quasi tutto il mondo si sono sottomessi:
non per salvare se stessi, ma le banche e i fondi che detengono i loro
titoli.
Tuttavia la crisi finanziaria non è che un risvolto di un meccanismo
economico, quello dello sviluppo – che è poi l’accumulazione del
capitale – che si è inceppato; perché è anch’esso a sua volta un
risvolto della crisi ambientale: il pianeta Terra non è più in grado di
sostenere con le sue risorse gli attuali flussi della produzione; e meno
che mai i flussi di scarti e residui – a partire dalle emissioni che
alterano il clima – che accompagnano inevitabilmente uno sviluppo
guidato dal profitto. «L’età della pietra – diceva lo sceicco Yamani,
già ministro del petrolio dell’Arabia Saudita – non è terminata per
mancanza di pietre. Nemmeno l’era del petrolio terminerà per
l’esaurimento del petrolio». Non lo farà, anche se le riserve
tradizionali di petrolio sono agli sgoccioli: finirà perché il petrolio,
e gli altri idrocarburi, saranno sostituiti da fonti rinnovabili ed
efficienza energetica; oppure perché le loro emissioni avranno provocato
disastri tali da rendere il pianeta inagibile e ogni ulteriore
estrazione di idrocarburi impossibile o superflua.
Con il procedere della crisi, l’esito ineluttabile di uno Stato preso
nella spirale di un debito insanabile come quello italiano è ciò che
tutti dicono di voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad
affrontare: il fallimento (default). Il problema non è il se, ma è solo
il quando; e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo.
Il dibattito politico, se ci fosse, dovrebbe vertere su questo. Invece
tutti parlano di rilanciare una crescita che non tornerà più; o che, se
anche tornasse, sarà talmente stentata da non poter interrompere quella
spirale infernale. Mentre si parla di “crescita” (ma di che cosa? dei
saldi contabili per fare fronte al debito) qualcuno, anzi molti, si
affrettano ad arraffare tutto, prima che non ci sia più niente da
prendere. Proprio come i deprecati protagonisti delle rivolte inglesi;
che sono al tempo stesso il prodotto di quel saccheggio e della cultura
che la civiltà dei consumi e la pubblicità promuovono ogni giorno. Ma là
non si tratta di rubare uno smartphone o un paio di sniker, ma di
privatizzazioni, di questi tempi vere e proprie svendite; e dopo le
pessime prove – in termini di tariffe e di efficienza – di tutte le
privatizzazioni realizzate negli ultimi anni. E dopo che l’Italia, ma
anche Berlino, ma anche Parigi, ma anche Bolivia ed Equador, si sono
pronunciati contro le privatizzazioni: non solo dell’acqua, ma di tutti i
servizi pubblici e i beni comuni.
Ma la democrazia è da tempo incompatibile con le esigenze dei
mercati. Oggi più che mai. Poi tocca alle pensioni (quelle dei poveri),
ai salari, al welfare, alla sanità, alla scuola all’occupazione, al
posto fisso, alle finanze dei Comuni: gli unici enti che sono, o
potrebbero essere, vicini ai governati. Ovviamente è un saccheggio
pericoloso: in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Medio Oriente – per
non parlare dell’Islanda: infatti nessuno ne parla perché la strada del
default è stata imboccata per scelta; e senza grandi danni, se non per i
banchieri finiti in galera – domani in Italia, lavoratori e cittadini
sfruttati e taglieggiati potrebbero ribellarsi. E non è detto che lo
facciano in forme gentili. Londra insegna.
Per fare fronte a questa eventualità – scrivono i corifei del
saccheggio di Stato – ci vuole una vera leadership. Quella attuale non è
all’altezza: tanto è vero che quella italiana – ma non solo quella – è
stata commissariata. Ma anche quella europea, che ne ha assunto la
tutela, lascia a desiderare. E nemmeno Obama naviga in buone acque.
Mancano le idee e mancano gli uomini, scrive sul Corriere della Sera un
alfiere del liberismo, Alberto Alesina, subito rincalzato dal suo
gemello, Francesco Giavazzi, che solo tre giorni prima si era invece
accontentato – su input del suo direttore – dell’«inventiva
imprenditoriale» di Berlusconi. Ma di idee intanto non ne tirano fuori
nemmeno una, se non la solita solfa: privatizzazioni, liberalizzazioni,
tagli alla politica e alla spesa pubblica (continuano a pensare che la
“crescita” sia una molla che scatta da sé); e di come e dove farle
nascere non parlano nemmeno (non sarà certo la riforma Gelmini a
produrre nuove idee; nemmeno quei due, che pure la esaltano, osano
sostenerlo). In queste condizioni la leadership tanto invocata ha sempre
di più l’aspetto di un “Uomo della Provvidenza”. Una débacle più sonora
del pensiero unico liberista, che ha dominato un trentennio di
disastri, e che ancora pretende di interpretare i tempi senza riuscire a
comprenderli, non potrebbe esserci. Ma in questo vuoto di conoscenze
(ambientali e sociali) e di pensiero strategico i rischi autoritari si
moltiplicano.
Davanti a noi c’è un’altra strada; perché sedi dove si producono idee
le abbiamo, anche se ancora gracili: sono i mille comitati di lotta, i
centri sociali, i circoli culturali, le associazioni civiche, alcune
riviste, molti blog, le associazioni studentesche, le pratiche
alternative dei GAS, dei DES, delle reti di insegnati, molte imprese
sociali, alcune rappresentanze sindacali. Anche alcune idee importanti e
condivise, nuove rispetto ai termini di un dibattito politico ormai
sclerotizzato, ci sono. Sono quella dei “beni comuni”: da difendere
dall’accaparramento privato e dalla gestione burocratica e corrotta
degli organismi statuali attraverso forme di trasparenza integrale, di
controllo dal basso e di gestione partecipata; e da estendere a tutte le
risorse naturali indivisibili, ai servizi pubblici, ai saperi. E poi
l’idea della territorializzazione dei rapporti economici: mercati
agricoli e alimentari a chilometri zero; rapporti diretti con i
fornitori che garantiscono qualità dei prodotti, dei processi e delle
condizioni di lavoro; coinvolgimento di tutti gli stakeholder
(lavoratori, utenti, amministrazioni locali, associazioni, centri di
ricerca, imprese fornitrici e utilizzatrici) nella riconversione di
produzioni in crisi, obsolete o dannose (a partire dalle armi: meno
spese, meno consumo di risorse, meno guerre); e impegno in tutte le
attività di salvaguardia dei territori e della loro vivibilità.
Di qui la convinzione che la salvezza non verrà dalla “crescita”, che
significa ogni giorno di più devastazione del pianeta, delle condizioni
di vita e dei rapporti sociali; e che i vincoli imposti dai mercati –
dalle parità di bilancio agli aumenti di fatturato, dal rendimento dei
bot agli andamenti delle borse – non sono totem a cui ci si debba
piegare. Lungo questi filoni di pensiero, e dentro queste pratiche e
questi organismi, può rendere forma e formarsi una nuova classe
dirigente: una cittadinanza attiva che si metta in grado di esautorare e
sostituire gli uomini che oggi sono al potere, in tutti gli ambiti e a
tutti i livelli, sia negli organismi statali e amministrativi, che nelle
imprese: quelle che hanno sostenuto per anni Berlusconi e che oggi
vogliono far pagare il costo dei loro disastri a chi non ne ha mai
condiviso le responsabilità, né avrebbe potuto farlo.
Ma può un movimento dal basso, fatto di organismi dispersi e pratiche
differenti, governare e dirigere un processo di transizione di questa
portata? Che per di più sta andando e andrà incontro a resistenze
pesanti e reazioni violente? Certamente no. Nessuno, credo, prospetta
una cosa simile. Ma le forze, le idee e la determinazione per
intraprendere un percorso del genere non possono nascere in nessuna
altra sede e in nessun altro modo. D’altronde non si tratta di processi
isolati: le donne e gli uomini alla ricerca di un mondo diverso, che lo
ritengono possibile, sono milioni in ogni parte della Terra. E se il
processo avrà un seguito, anche molti spezzoni delle attuali classi
dirigenti potranno separarsi dalla matrice in cui sono cresciute e
forgiate; ma è un processo che può svilupparsi intorno a idee e sedi che
oggi occorre ancora diffondere e consolidare.
da il manifesto