29 nov 2011

Lasciateci seminare

di Daniela Passeri, 28 novembre , * http://www.venezia2012.it/
 

La Rete Semi Rurali, insieme con Acra e Crocevia, ha lanciato la campagna “Semi legali, semi locali” per chiedere alla Conferenza Stato-Regioni e al Ministero delle Politiche Agricole di riconoscere agli agricoltori il diritto alla selezione, conservazione e commercializzazione dei semi di antiche varietà locali. Diritto già scritto in una direttiva europea (98/95/CE), ma in Italia manca il solito decreto ministeriale che gli agricoltori aspettano da almeno tre anni.
I semi sono quanto di più strettamente regolamentato si possa immaginare. Il Catalogo delle varietà vegetali, una sorta di libro della natura ad uso dei burocrati, è molto rigoroso ed ha di fatto escluso dal business sementiero le varietà locali ed autoctone che hanno (quasi) perso il diritto di esistere: se non sei nel catalogo nessuno ti compra, nessuno ti coltiva. Per ovviare a questo sgarbo alla natura sono stati creati cataloghi paralleli di varietà “da conservazione”.
Ai produttori agricoli è riconosciuto (legge 1096/71)  il diritto alla vendita diretta “di modiche quantità” (sic!) di semi da conservazione, cioè di varietà locali, purché lo facciano in ambito locale, purché autorizzati, purché dimostrino di avere adeguate capacità tecniche, purché abbiano le macchine adatte alla pulizia….  Purché, in definitiva, siano un’industria sementiera.
Non solo: per ottenere i contributi dalla UE occorre dimostrare di aver acquistato semi certificati (da un anno questo non vale più per i cereali) dai soliti big delle sementi, cinque multinazionali (Monsanto, Du Pont, Syngenta, Groupe Limagrain, Land O’Lakes) che detengono il 57% del mercato mondiale dei semi, quindi delle colture. Ovvero, decidono quello che arriva in tavola.
E noi mangiamo pane e pasta ottenuti dalle farine “migliori” ma solo in termini di velocità di impasto (con maggiore azoto e maggiori proteine, che rendono l’impasto più “resistente” alle sollecitazioni delle macchine, ma povere di oligoelementi, cioè vitamine e minerali), e velocità di lievitazione (lievito di birra invece delle miscele di pasta madre, anche queste troppo slow), a scapito delle loro qualità organolettiche, nutrizionali, di durata (il pane la sera è già da buttare). Insomma, le farine bianche, superraffinate, ottenute dalla selezione di grani monovarietali concepiti dalla ricerca agronomica, dice Riccardo Bocci, coordinatore della Rete Semi Rurali (www.semirurali.net) “per essere venduti nei cinque continenti con l’idea che i campi possono essere resi tutti uguali, basta aggiungere più o meno acqua, più o meno fertilizzanti chimici, diserbanti, pesticidi, funghicidi. Questo aspetto pone forte la questione della ricerca sulle sementi, che, poiché determina quello che noi mangiamo, deve essere pubblica. E pone forte anche la questione del costo ambientale enorme di questa politica agricola che favorisce soltanto l’agricoltura industriale”.
La campagna della Rete Semi Rurali pone dunque l’accento sulla necessità di tornare a “rilocalizzare” le colture, una delle 8 “R” (insieme con “ridurre”, “ridistribuire”, “rivalutare”…) con cui Serge Latouche spiega il pensiero della Decrescita. Per fare un esempio, si tratta di tornare a coltivare varietà di frumento autoctone o “antiche”, ciascuna nel suo territorio d’elezione, non per un nostalgico ritorno al passato, ma perché sono il risultato di novemila anni di adattamento all’ambiente e miglioramento varietale, quindi sono le più adatte a crescere in un certo territorio e le migliori per chi voglia abbandonare l’agricoltura convenzionale. “Sono le piante – sottolinea Bocci – che i nostri avi hanno coltivano nelle nostre campagne fino a circa 70-80 anni fa e sono quelle che meglio si adattano a ciascun terreno, ciascun micro-clima, a metodi agronomici naturali, precedenti l’introduzione massiccia della chimica, e quindi sono le più indicate per chi voglia passare al biologico, oltre che costituire una grande ricchezza per la biodiversità”.
Giuseppe Li Rosi, produttore di frumenti antichi a Raddusa (Catania), e oggi commissario straordinario della Stazione sperimentale di granicoltura per la Sicilia di Caltagirone, è uno degli agricoltori che, in sordina, al limite della legalità, ha ricominciato a produrre frumenti antichi con metodo biologico operando prima una lunga selezione, durata una decina d’anni, per capire quali sementi erano più adatte alla sua terra.
Dove avrà trovato i semi, visto che l’industria sementiera non tratta queste varietà marginali e non è possibile acquistarle da altri contadini? “In gran parte alla Stazione sperimentale di Caltagirone -  racconta Li Rosi – ma anche andando nelle campagne dai contadini più anziani, partendo da quantità minime, anche 700 grammi di semi, quindi in modo illegale e senza dichiararlo, altrimenti avrei perso pure i contributi. E’ stato mio padre ad intuire che la coltivazione biologica sarebbe stata più redditizia di quella convenzionale, per via delle sovvenzioni. Però, coltivare con metodi che io preferisco chiamare naturali, con semi che sono stati progettati per la chimica, non funziona. Ho dovuto mettermi alla ricerca dei semi più adatti ai miei campi con i quali oggi ottengo, in qualsiasi condizione, una resa omogenea di 25 quintali/ettaro contro i 40-60 quintali/ettaro del convenzionale, però i costi di produzione del biologico sono la metà di quelli del convenzionale. In più, la qualità non ha paragoni: il frumento antico si radica più in profondità, quindi contiene più microelementi, ovvero sali minerali, in particolare manganese e selenio, mentre i frumenti dell’agrobusiness si accontentano dell’azoto e del fosforo con cui sono pompati. Ma sono prodotti di sintesi, da combustibile fossile a cibo”.
Per essere competitivo sul mercato Li Rosi sa che deve chiudere la filiera: produrre solo materia prima – il cui prezzo viene deciso alla borsa dei cereali di Chicago – per un’azienda agricola non è più sufficiente, occorre trasformare il grano in farina, la farina in pane e pasta. Così il contadino recupera la sua dignità di produttore di cibo e riattiva l’artigianato che, su piccola scala, può produrre alimenti di altissima qualità, anche nutrizionale, che non hanno bisogno di essere raffinati per diventare stabili, essere trasportati, durare a lungo.
In Italia il 50 per cento dei semi viene acquistato dai sementieri ma c’è poi un 50 per cento, nell’industria cerealicola, che continua a produrre i semi da sé. “Questo si spiega – dice Bocci – perché esistono ancora tanti piccoli agricoltori che per varie ragioni, familiari, di tradizione, hanno continuato a produrre secondo un modello agricolo considerato da più “sottosviluppato”, ma che ha permesso una certa diversità nei campi. Però questi agricoltori hanno un’età che va dai 65 ai 90 anni: la sfida sarà creare un ponte tra generazioni per non disperdere semi e conoscenze”.

28 nov 2011

Denaro-denaro-denaro: il ciclo della finanziarizzazione

di Francesco Indovina «Si può fare a meno del fallimento dell’Italia! Vediamo un po’»Sbilanciamoci newsletter, 26 novembre 2011  

C’è un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere a una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.

Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finanziarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.

È necessario riflettere che la finanziarizzazione dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierne denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).

Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trent’anni fa lucrava sul “parco buoi”, nome affibbiato a chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti a una distribuzione non equa di quanto producono (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dall’altra parte, sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.

Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanta o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attiva dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Nessun regalo, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente il meccanismo finanziario, si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.

È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! È una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove, e le tecnologie che usa (gli High Frequency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse), si crea autonomamente le occasioni di successo per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirle alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente la speculazione al cuore, toglierle l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti sovrani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).

In sostanza il sistema non si tocca; si possono punire, anche severamente, come in America, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone che non riesce a gestire le forze che ha scatenato.

Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada; ci vorrà tempo (anche secoli secondo Ruffolo) e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.

La Grecia ha fatto tutto quello che le era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.

Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) a seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commissione della UE, cioè di fatto della finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. Ha senso? Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? Ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce parte strutturale del sistema)?

Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocamento del risparmio? È possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.

Qual è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice Rosy Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro di giovani, donne, precari, disoccupati, c’è da occuparsi di scuola, sanità, territorio, ecc. La domanda è: tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene, ma tutto il resto come lo si fa? Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannosi per fare tutte le cose elencate prima.

Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende da volontà e forza: un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.) potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.

Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in sua mancanza facciamo da soli, non c’è da salvare una astratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.

Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.