di Daniela Passeri, 28 novembre , * http://www.venezia2012.it/
La Rete Semi Rurali, insieme con Acra e Crocevia, ha lanciato la
campagna “Semi legali, semi locali” per chiedere alla Conferenza
Stato-Regioni e al Ministero delle Politiche Agricole di riconoscere
agli agricoltori il diritto alla selezione, conservazione e
commercializzazione dei semi di antiche varietà locali. Diritto già
scritto in una direttiva europea (98/95/CE), ma in Italia manca il
solito decreto ministeriale che gli agricoltori aspettano da almeno tre
anni.
I semi sono quanto di più strettamente regolamentato si possa
immaginare. Il Catalogo delle varietà vegetali, una sorta di libro della
natura ad uso dei burocrati, è molto rigoroso ed ha di fatto escluso
dal business sementiero le varietà locali ed autoctone che hanno (quasi)
perso il diritto di esistere: se non sei nel catalogo nessuno ti
compra, nessuno ti coltiva. Per ovviare a questo sgarbo alla natura sono
stati creati cataloghi paralleli di varietà “da conservazione”.
Ai produttori agricoli è riconosciuto (legge 1096/71) il diritto alla vendita diretta “di modiche quantità” (sic!)
di semi da conservazione, cioè di varietà locali, purché lo facciano in
ambito locale, purché autorizzati, purché dimostrino di avere adeguate
capacità tecniche, purché abbiano le macchine adatte alla pulizia….
Purché, in definitiva, siano un’industria sementiera.
Non solo: per ottenere i contributi dalla UE occorre dimostrare di
aver acquistato semi certificati (da un anno questo non vale più per i
cereali) dai soliti big delle sementi, cinque multinazionali (Monsanto,
Du Pont, Syngenta, Groupe Limagrain, Land O’Lakes) che detengono il 57%
del mercato mondiale dei semi, quindi delle colture. Ovvero, decidono
quello che arriva in tavola.
E noi mangiamo pane e pasta ottenuti dalle farine “migliori” ma solo
in termini di velocità di impasto (con maggiore azoto e maggiori
proteine, che rendono l’impasto più “resistente” alle sollecitazioni
delle macchine, ma povere di oligoelementi, cioè vitamine e minerali), e
velocità di lievitazione (lievito di birra invece delle miscele di
pasta madre, anche queste troppo slow), a scapito delle loro qualità
organolettiche, nutrizionali, di durata (il pane la sera è già da
buttare). Insomma, le farine bianche, superraffinate, ottenute dalla
selezione di grani monovarietali concepiti dalla ricerca agronomica,
dice Riccardo Bocci, coordinatore della Rete Semi Rurali (www.semirurali.net)
“per essere venduti nei cinque continenti con l’idea che i campi
possono essere resi tutti uguali, basta aggiungere più o meno acqua, più
o meno fertilizzanti chimici, diserbanti, pesticidi, funghicidi. Questo
aspetto pone forte la questione della ricerca sulle sementi, che,
poiché determina quello che noi mangiamo, deve essere pubblica. E pone
forte anche la questione del costo ambientale enorme di questa politica
agricola che favorisce soltanto l’agricoltura industriale”.
La campagna della Rete Semi Rurali pone dunque l’accento sulla
necessità di tornare a “rilocalizzare” le colture, una delle 8 “R”
(insieme con “ridurre”, “ridistribuire”, “rivalutare”…) con cui Serge
Latouche spiega il pensiero della Decrescita. Per fare un esempio, si
tratta di tornare a coltivare varietà di frumento autoctone o “antiche”,
ciascuna nel suo territorio d’elezione, non per un nostalgico ritorno
al passato, ma perché sono il risultato di novemila anni di adattamento
all’ambiente e miglioramento varietale, quindi sono le più adatte a
crescere in un certo territorio e le migliori per chi voglia abbandonare
l’agricoltura convenzionale. “Sono le piante – sottolinea Bocci – che i
nostri avi hanno coltivano nelle nostre campagne fino a circa 70-80
anni fa e sono quelle che meglio si adattano a ciascun terreno, ciascun
micro-clima, a metodi agronomici naturali, precedenti l’introduzione
massiccia della chimica, e quindi sono le più indicate per chi voglia
passare al biologico, oltre che costituire una grande ricchezza per la
biodiversità”.
Giuseppe Li Rosi, produttore di frumenti antichi a Raddusa (Catania),
e oggi commissario straordinario della Stazione sperimentale di
granicoltura per la Sicilia di Caltagirone, è uno degli agricoltori che,
in sordina, al limite della legalità, ha ricominciato a produrre
frumenti antichi con metodo biologico operando prima una lunga
selezione, durata una decina d’anni, per capire quali sementi erano più
adatte alla sua terra.
Dove avrà trovato i semi, visto che l’industria sementiera non tratta
queste varietà marginali e non è possibile acquistarle da altri
contadini? “In gran parte alla Stazione sperimentale di Caltagirone -
racconta Li Rosi – ma anche andando nelle campagne dai contadini più
anziani, partendo da quantità minime, anche 700 grammi di semi, quindi
in modo illegale e senza dichiararlo, altrimenti avrei perso pure i
contributi. E’ stato mio padre ad intuire che la coltivazione biologica
sarebbe stata più redditizia di quella convenzionale, per via delle
sovvenzioni. Però, coltivare con metodi che io preferisco chiamare
naturali, con semi che sono stati progettati per la chimica, non
funziona. Ho dovuto mettermi alla ricerca dei semi più adatti ai miei
campi con i quali oggi ottengo, in qualsiasi condizione, una resa
omogenea di 25 quintali/ettaro contro i 40-60 quintali/ettaro del
convenzionale, però i costi di produzione del biologico sono la metà di
quelli del convenzionale. In più, la qualità non ha paragoni: il
frumento antico si radica più in profondità, quindi contiene più
microelementi, ovvero sali minerali, in particolare manganese e selenio,
mentre i frumenti dell’agrobusiness si accontentano dell’azoto e del
fosforo con cui sono pompati. Ma sono prodotti di sintesi, da
combustibile fossile a cibo”.
Per essere competitivo sul mercato Li Rosi sa che deve chiudere la
filiera: produrre solo materia prima – il cui prezzo viene deciso alla
borsa dei cereali di Chicago – per un’azienda agricola non è più
sufficiente, occorre trasformare il grano in farina, la farina in pane e
pasta. Così il contadino recupera la sua dignità di produttore di cibo e
riattiva l’artigianato che, su piccola scala, può produrre alimenti di
altissima qualità, anche nutrizionale, che non hanno bisogno di essere
raffinati per diventare stabili, essere trasportati, durare a lungo.
In Italia il 50 per cento dei semi viene acquistato dai sementieri ma
c’è poi un 50 per cento, nell’industria cerealicola, che continua a
produrre i semi da sé. “Questo si spiega – dice Bocci – perché esistono
ancora tanti piccoli agricoltori che per varie ragioni, familiari, di
tradizione, hanno continuato a produrre secondo un modello agricolo
considerato da più “sottosviluppato”, ma che ha permesso una certa
diversità nei campi. Però questi agricoltori hanno un’età che va dai 65
ai 90 anni: la sfida sarà creare un ponte tra generazioni per non
disperdere semi e conoscenze”.