27 giu 2012

l'orto biologico

da: http://www.ortiurbani.net/wp-content/uploads/F.Or_.Tec-LOrto.pdf

L’agricoltura biologica è unanimemente riconosciuta come un metodo produttivo sostenibile, tuttavia non si può parlare di sostenibilità ragionando esclusivamente su concetti tecnici (es. quali prodotti sarebbe bene usare per le fertilizzazioni? Come ridurre il numero di trattamenti antiparassitari?), ma occorre anche considerare una serie di principi etici che siano condivisibili da tutti, agricoltori e non.
Essi sono:
- cura della terra: l’agricoltura biologica vuole riportare in buone condizioni il suolo ed il territorio, ormai degradati da una pluriennale pratica di coltivazione distruttiva ed inquinante;
- cura delle persone: l’agricoltura biologica vuole migliorare la qualità della vita degli agricoltori, dei consumatori, delle generazioni presenti e future, affinché tutti possano beneficiare di alimenti più sani e nutrienti e di un ambiente più salubre;
- limite ai consumi ed agli sprechi: l’agricoltura biologica vuole sostituire il consumo intensivo di erbicidi, fertilizzanti, antiparassitari e acqua con tecniche che, impiegando e riciclando risorse interne all’azienda, permettano ugualmente di nutrire le piante e difenderle dai parassiti.
L’etica dunque non è un optional da usare quando fa comodo, ma dev’essere considerata ogniqualvolta l’agricoltore prende una decisione o esegue un’operazione agronomica; vediamo perché e come, servendoci di due esempi:

Le rotazioni.
La scelta di avvicendare correttamente le colture in modo da prevenire l’accumulo di parassiti nel terreno, invece di ripetere nello stesso appezzamento la coltivazione di poche specie caratterizzate da parassiti comuni, evita il ricorso ad interventi correttivi drastici come la disinfezione del suolo che implica l’uso di potenti veleni. In questo caso l’agricoltore avrà “cura della terra” perché non introdurrà agenti inquinanti nel suolo, avrà “cura delle persone” perché coltiverà senza usare sostanze nocive alla sua e nostra salute, porrà un “limite ai consumi e agli sprechi” perché risolverà il problema senza ricorrere ad alcun intervento chimico, ma semplicemente eseguendo gli avvicendamenti secondo la buona pratica agronomica.

L’uso della paglia per la pacciamatura.  
La paglia è un sottoprodotto della coltivazione dei cereali, in zootecnia viene usata come foraggio, ma nella produzione vegetale, purtroppo, è spesso considerata materiale di scarso valore; la possibilità d’impiegarla per il controllo delle malerbe e la difesa del suolo nella coltivazione degli ortaggi, in sostituzione o in modo complementare all’uso di teli, è un’opportunità virtuosa. Eccellenti risultati si riscontrano nella coltivazione di zucca, melone, anguria, zucchino, pomodoro da salsa.
In questo caso l’agricoltore avrà “cura della terra” perché con la paglia proteggerà il suolo dall’azione destrutturante e erosiva delle piogge e del vento, perché a fine coltura la paglia verrà trinciata ed interrata con conseguente liberazione di principi nutritivi e, soprattutto, conversione in humus, perché la paglia rappresenta un’alternativa non inquinante all’uso di diserbanti. 
L’agricoltore avrà “cura delle persone” perché controllerà le erbe infestanti usando una tecnica che esclude l’impiego di sostanze nocive alla salute (i diserbanti). Infine, porrà un “limite ai consumi e agli sprechi” perché impiegherà in modo intelligente un sottoprodotto della coltivazione dei cereali; perché con l’interramento della paglia restituirà al suolo parte dei principi nutritivi che la coltivazione dei cereali gli avevano sottratto; perché la paglia, intesa come materiale pacciamante, non richiede consumi energetici specifici per la sua genesi, a differenza dei teli; perché la paglia, rispetto ai teli pacciamanti in polietilene, non richiede lo smaltimento in centri di raccolta specializzati; perché se si decide di non interrarla a fine coltura, la paglia può essere raccolta e riutilizzata per le stesse finalità o per fungere da lettiera per gli animali domestici.
Senza queste basi etiche non si può fare vera agricoltura biologica.
La fertilità del suolo non è solo chimica. Accettare questo principio non è cosa da poco, in quanto dal punto di vista pratico e psicologico la sua applicazione implica una grande svolta rispetto alla coltivazione col metodo convenzionale.
Cosa cambia? Ogni giorno l’ortolano dovrà pensare, decidere ed agire considerando la fertilità del terreno come l’insieme di tre tipi di fertilità complementari fra loro e legati da molti nodi:
- fertilità biologica: ossia la presenza di una ricca e diversificata comunità di micro
e macro-organismi;
- fertilità fisica: ossia la presenza di una struttura buona e stabile;
- fertilità chimica: ossia la dotazione di principi nutritivi.
Cosa implicano nella pratica di campo queste tre facce della fertilità?
- Fertilità biologica: si può mantenere e migliorare programmando bene l’avvicendamento delle colture ed eseguendo determinate operazioni colturali che producano un aumento della biodiversità nel suolo. Come? Praticando rotazioni lunghe (cioè di almeno 4 anni), coltivando specie che non condividano gli stessi parassiti affinché sia scongiurato l’accumulo nel terreno di organismi nocivi (es. funghi, nematodi), inserendo il maggior numero di sovesci e fertilizzazioni a base di letame o compost allo scopo di mantenere un’adeguata dotazione di sostanza organica nel terreno che, direttamente o meno, costituisce il substrato alimentare della comunità biotica terricola.
Di conseguenza, nel terreno si genererà uno stato di equilibrio fra popolazioni di organismi utili e nocivi che non solo limiterà la comparsa di parassiti dell’apparato radicale, ma anche quello di parassiti che attaccano le parti verdi delle piante e che possono conservarsi da un anno all’altro sui residui colturali (es. Peronospora delle solanacee, Peronospora delle crucifere, Botrite, Antracnosi del fagiolo, ecc.) oppure in una forma resistente alle avversità (es. sclerozio per la Sclerotinia).
Il mancato rispetto delle regole che individuano un buon avvicendamento porterà inevitabilmente ad un accumulo di organismi dannosi nel terreno per cui, anche dopo soli 3 anni di coltivazione, si cominceranno a notare cali produttivi (esempio di cattivo avvicendamento: pomodoro/peperone/cetriolo/fragola). 
Per raggiungere questi obiettivi l’agricoltore non potrà prescindere dalla conoscenza di com’è fatto il terreno e di quali sono, e come si comportano, gli organismi che insidiano le sue colture. Occorrerà, quindi, riprendere in mano i libri ed eseguire diverse esercitazioni in campo.
Un’altra cosa da tenere conto è che alcune colture, utili per un’esecuzione corretta della rotazione, potrebbero non essere abbastanza remunerate dal mercato ed altre, come i sovesci, addirittura non commercializzabili; nonostante questo, il passaggio dalla teoria alla pratica dovrà essere gestito in modo economicamente conveniente: cosa non semprefacile, ma comunque possibile.
Fertilità fisica: nell’agricoltura convenzionale è stata spesso sottovalutata perché si tendeva a mantenere un’accettabile struttura del terreno solo per mezzo di interventi correttivi (es. arature molto anticipate, energiche fresature, ripetute sarchiature, impiego di macchine molto potenti) trascurando invece l’importanza delle proprietà dell’humus che migliora e rende più stabile la struttura. Col metodo biologico l’agricoltore dovrà:
- dedicare una grande attenzione al benessere dell'apparato radicale delle piante (che a sua volta influenza il benessere generale delle piante) e quindi far sì che la porosità del terreno sia tale da garantire un’adeguata presenza di ossigeno ed acqua per i processi vitali delle radici e degli organismi terricoli: questo in pratica si otterrà lavorando il terreno in tempera, usando macchine poco pesanti, eseguendo interventi correttivi (es. sarchiature), proteggendo il suolo con la tecnica della pacciamatura, consociando le colture, irrigando a goccia, oppure anche a pioggia ma con attrezzature che minimizzino l’azione battente delle gocce sul terreno (es. microsprinklers);
- fare il massimo per mantenere o migliorare il contenuto di sostanza organica/humus del terreno e dunque indirizzare in questo senso le scelte operative in fatto di fertilizzazioni, avvicendamenti, lavorazioni.
In conclusione, sul piano pratico, la soluzione del problema “fertilità fisica del suolo” ruota intorno alla presenza di humus ed alle pratiche colturali ad esso connesse che dovranno essere apprese dall’agricoltore ed eseguite in modo efficiente ed economicamente conveniente.
Fertilità chimica: passando a coltivare col metodo biologico l’agricoltore non si troverà più ad avere a disposizione concimi a pronto effetto (es. nitrato d’ammonio) che gli consentivano di effettuare interventi dal risultato immediato, in particolare con la coltura in crescita; la disponibilità di principi nutritivi ora dipenderà dalla mineralizzazione della sostanza organica presente nel terreno, processo svolto da organismi che hanno bisogno di un’adeguata presenza di ossigeno, acqua e temperatura: 
la fertilità chimica del terreno dipenderà dunque anche da quella fisica e biologica. Pertanto occorrerà mettere a disposizione delle colture adeguate quantità di sostanza organica in un terreno ben strutturato.
Non va dimenticato che solo una minima parte della sostanza organica interrata da un sovescio o una letamazione si umifica (al massimo si raggiunge il 30% della sostanza secca), mentre il resto dopo poche settimane inizia liberare buone quantità di principi nutritivi a cui si aggiungono quelle che ogni anno derivano dalla mineralizzazione dell’humus (cioè l’1,8-2,5% della dotazione in humus del terreno, a seconda si passi da un terreno caratterizzato da una elevata presenza di argilla ad un terreno con molta
sabbia). In pratica, bisognerà che l’ortolano coltivi il terreno:
- fertilizzando le colture con sostanza organica umificabile (cioè soprattutto letame o compost) ed impiegando solo all’occorrenza fertilizzanti organici commerciali (es. pellettati vari, sottoprodotti della macellazione);
- inserendo frequentemente sovesci negli avvicendamenti: è auspicabile che si arrivi a farne almeno uno ogni due anni per appezzamento, se non si riesce ad usare regolarmente letame o compost;
- minimizzando le perdite indesiderate di humus e cioè evitando di:
- lasciare il terreno nudo per più di 2-3 mesi, soprattutto d’estate. 
- effettuare lavorazioni del terreno che portino lo strato superficiale (ricco di humus) oltre i 20-25 cm di profondità;
- interrare i residui colturali, i fertilizzanti ed i sovesci oltre i 20-25 cm di profondità.

Dinamismo 
L’ortaggio, in quanto coltura erbacea annuale (sono rare le poliennali), offre all’agricoltore un grande vantaggio rispetto al collega che coltiva piante arboree o seminativi: gli dà la possibilità di scegliere fra più di 40 specie vegetali appartenenti a più di 10 famiglie diverse.

In pratica, in orticoltura si ha la possibilità di:

- diversificare la produzione (e quindi adeguarsi con più facilità alle richieste del mercato);
- ottenere più raccolti in un anno nello stesso appezzamento (a seconda del clima, ci sono colture che in soli 30-40 gg. sono già pronte per la commercializzazione, es. lattuga, spinacio, cetriolo, zucchino)
- beneficiare di un buon numero di varietà caratterizzate da resistenza o tolleranza a diversi parassiti
- diversificare la gestione agronomica del suolo con benefici:
- nel controllo delle malerbe (è possibile alternare colture sarchiate e non, pacciamate e non, giocare sulla densità di semina e sulla diversa stagionalità delle colture, effettuare sovesci, ecc.);
- nel mantenimento della fertilità del suolo (ci sono più opportunità per regolare il bilancio umico, è possibile inserire nell’avvicendamento leguminose da reddito, eseguire diversi tipi di lavorazione del terreno e sovesci, ecc.);
- nel controllo degli organismi dannosi (è possibile eseguire con più facilità lunghe rotazioni).

La vera ricchezza sta nella diversità è uno dei motti più importanti dell’agricoltura biologica e farlo proprio è fondamentale per operare nella direzione giusta. Alcune regole per aumentare la diversità nella proprio orto urbano:
- no alle rotazioni brevi
- no agli appezzamenti troppo grandi
- sì alle consociazioni
- sì alla coltivazione a strisce
- sì ai sovesci
- si al letame e compost 
-sì alle infrastrutture ecologiche.

21 giu 2012

Naerum Allotment Gardens

Naerum Allotment Gardens by Carl Theodor Sorensen, Denmark, 1952



Nærum, Denmark, are considered one of C. Th. Sørensen 's most important creations. In 1948 40 oval allotment gardens, each measuring c.25 × 15 m/80 × 50 ft, were laid out on a rolling lawn, a common green, in a fluid progression. The gardens are mostly placed so that the oval lies across the curves of the slope. This use of the rolling terrain, combined with the sweeps and curves of the hedges, accentuates the dynamic impression. The individual garden plots are enclosed compartments surrounded by hedges; their cottages may be situated in different ways, but comply with the overall plan. The hedges were originally intended to be both clipped and unclipped, using such species as hornbeam, hawthorn, privet, and roses, but today there are mostly privet and hawthorn, clipped in different heights and forms. The design of the individual garden plots was left up to each owner, but a guide from C. Th. Sørensen shows various models. The allotment gardens are situated close to a large public housing scheme, Nærumvænge, with flats and terraced houses, characterized by its homogeneous look and red hipped roofs. C. Th. Sørensen landscaped the green spaces here also.





orto zen

ortozen

19 giu 2012

Il lavoro secondo la decrescita

Il lavoro secondo la decrescita
di PAOLO CACCIARI

La terza Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità ambientale e l’equità sociale che si terrà a Venezia dal 19 al 23 settembre (www.venezia2012.it)  si sta velocemente avvicinando. Essa si svolgerà lungo tre assi tematici: commons, democracy e work. Sui primi due la combinazione con i principi della decrescita è abbastanza facile da immaginare: la decrescita è prima di tutto riconoscimento del valore non monetario dei sistemi ecologici e l’auspicio di una loro gestione responsabile, condivisa, partecipata. Sul lavoro e, più precisamente, su come riuscire a ridurre l’impiego di lavoro comunque retribuito senza abbassare le disponibilità monetarie percepite dai lavoratori (lavorare tutti e meno e continuare a guadagnare lo stesso) è un problema più complicato e non di immediata comprensione se si rimane nella logiche del mercato. Come scriveva André Gorz è necessario “immaginare come vivere meglio consumando e lavorando meno e altrimenti”.
L’attacco più pesante che i critici lanciano all’idea della decrescita riguarda proprio il nodo dell’occupazione. Nel mondo contemporaneo il lavoro retribuito continua ad essere una necessità impellente per miliardi di esseri umani. Disinteressarsene sarebbe un po’ snobistico oltre che crudele.  Più in generale  l’etica del lavoro ci ha insegnato che  serve “sudare” per guadagnarsi da vivere. Una condanna biblica,  quasi come lo è per le donne il “partorire con dolore”.
Da queste premesse, nel concetto di lavoro, nel tempo, si sono fatte strada delle separazioni tra varie tipologie di lavoro. Tra arbeit e werke, tra lavoro libero/creativo e lavoro necessitato/subalterno, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra lavoro strutturato e lavoro informale. Fino a giungere ai giorni nostri, dominati dalla “razionalità economica”, in cui  per lavoro si intendono solo ed esclusivamente quelle attività capaci di ricevere del reddito. Peccato che in questo modo l’economia e la sua ancella, la politica, abbiano finito per disconoscere tutte quelle attività “fuori mercato” che pure ci permettono di vivere: il lavoro domestico, di assistenza e di cura gratuita (per esempio, il 59% delle ore impiegate dalle persone in Germania rientrano in questa categoria), il lavoro dedicato all’autoproduzione di beni e servizi utili a sé, donati o scambiati con altri senza il ricorso a mezzi monetari, le attività dedicate alle relazioni comunitarie (volontariato, impegno civile, ecc.), il tempo impegnato alla formazione e all’aggiornamento personale, tutte le attività che si svolgono nel mare immenso dell’economia informale, specie nei vari Sud del mondo.
Il primo passo che dovremmo compiere, allora, è attribuire valore e dignità a tutti i lavori.
L’economista gandhiano Joseph C.Kumarappa (Economia della permanenza, in: “Quaderni di Satyagrah”, 2012) affermava che nel lavoro vi sono due componenti inseparabili: l’elemento creativo e quello della fatica e del disagio. “La routine e il piacere si devono alternare, altrimenti la routine diventa fatica e il divertimento ozio (…) Il corpo umano ha bisogno di faticare. Un lavoro completo dà al nostro corpo energia e salute, come fa del resto una alimentazione equilibrata”. Questo equilibrio viene rotto quando interviene la violenza della divisione del lavoro. Allora gli “astuti” tentano di acquisire il maggiore guadagno con minore sforzo obbligando altri a lavorare per loro. Un’altra divisione del lavoro che va superata è quella sessuata, che costringe le donne in una condizione di sottomissione patriarcale.
Insomma non si tratta solo di distribuire meglio quel (poco, in Occidente) lavoro retribuito che l’economia di mercato è capace di offrire, ma di riconoscere, rivalutare, ricomprendere, restituire dignità a tutte le attività umane socialmente utili. Questo, in fondo, è il significato più vero del “basic income”, del reddito d’esistenza o di cittadinanza visto come ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta sulla base non di principi di efficienza e di produttività dei capitali investiti, ma del riconoscimento del contributo di ciascun membro della famiglia umana al mantenimento e alla riproduzione della vita. Un altro modo per dire che il lavoro, l’energia psicofisica umana, è un bene comune, esattamente come  lo è l’energia solare e quella generata dagli ecosytem service. La mercificazione del lavoro è una forma – forse la più odiosa e paradossale – di enclousures, di privatizzazione, di esproprio e di degradazione. Decrescita allora significa non solo demercificazione, ma anche disalienazione del lavoro.
Un percorso di decrescita non può quindi prescindere dal seguire una traiettoria di liberazione del lavoro dal giogo che lo tiene subalterno alle logiche mercantili. In altre parole la discussione sulla qualità e sul senso del lavoro (moltissime idee e indicazioni possono venire da: Il lavoro come questione di senso, curato da Francesco Totaro per la Edizioni Universitarie di Macerata) deve essere prioritaria rispetto alla pura logica della ricerca dei modi per sua moltiplicazione quantitativa.
Il primo passo, quindi, nella direzione della “piena occupazione”, è riconoscere e condividere equamente il lavoro nella sua interezza e completezza. Per attribuire al lavoro importanza, dignità e riconoscimento sociale è necessario restituirgli un significato alto e condiviso. Friedrich Schumacher (Piccolo è bello, nuova edizione a cura di Slow Food) affermava che la funzione del lavoro è triplice: “dare all’uomo una opportunità di utilizzare e sviluppare le sue facoltà; metterlo nelle condizioni di superare il suo egoismo unendosi ad altri in un’impresa comune; infine, produrre i beni e i servizi necessari a un’esistenza degna”.

11 giu 2012

ortiurbani - lesson 1

L’agroecologia è l’applicazione dei principi dell’ecologia all’agricoltura. Essa include la conoscenza dei cicli di vita di ogni organismo vegetale o animale che può interagire con la produzione agricola o l’ambiente.
Lo sviluppo della produzione agricola dipende dalla complessa interazione di molteplici fattori, ed in particolare, per quanto riguarda la produzione orticola, richiede lo studio delle relazioni tra l'orto e l’ambiente. E’ attraverso questa profonda comprensione dell’ecologica dell’agricoltura che si apriranno le porte alle nuove possibilità di gestione più in sintonia con l’obiettivo di una agricoltura realmente sostenibile.
L’obiettivo è quello di sviluppare un agro-ecosistema che abbia una dipendenza minima da input esterni, in cui le interrelazioni ecologiche e la sinergia tra gli organismi forniscono il meccanismo un sistema per favorire la fertilità del proprio suolo, la produttività e la protezione delle colture.
La conoscenza dell’agro-ecologia spinge i contadini ad utilizzare le loro conoscenze e capacità affinché l’enorme potenzialità dell’aumento della biodiversità crei quella positiva sinergia che fornisce all’ agro-ecosistema l’abilità di rimanere o ritornare all’innato stato di stabilità naturale. Le rese sostenibili nell’agro-ecosistema derivano da un appropriato equilibrio tra colture, suoli, nutrienti, illuminazione, umidità ed organismi coesistenti. L’agro-ecosistema è produttivo ed in salute quando questo equilibrio e le favorevoli condizioni di crescita prevalgono, e quando le piante coltivate sono abbastanza resistenti da tollerare le pressioni e le avversità. I problemi occasionali possono essere facilmente superati da vigorosi agro-ecosistemi che sono adattabili e abbastanza differenziati e riescono a recuperare le pressioni subite.
Dal punto di vista della gestione, l’obiettivo dell’agro-ecologia è favorire un ambiente equilibrato, delle produzioni sostenibili, una fertilità del suolo regolata biologicamente e una regolazione dei parassiti attraverso la creazione di agro-ecosistemi diversificati e l’uso di tecnologie low-input. 

La strategia è basata sui principi ecologici, in questo modo tale gestione conduce ad un riciclo ottimale dei nutrienti e ad una rotazione delle sostanze organiche, a flussi chiusi di energia, ad una conservazione dell’acqua e del suolo e ad un equilibrio tra parassiti e nemici naturali. L’idea è di sfruttare le complementarietà e i sinergismi che derivano dalle varie combinazioni di colture, alberi ed animali.
Il comportamento ottimale degli agro-ecosistemi dipende dal livello di interazione tra i loro componenti biotici e abiotici. Mettendo insieme una funzionale biodiversità, è possibile provocare sinergismi. Essi favoriscono i processi dell’agro-ecosistema, attraverso servizi ecologici quali l’attivazione della biologia del suolo, il riciclo dei nutrienti, l’accrescimento degli artropodi benefici.
L’agro-ecologia sostiene che i principi base di un agro-ecosistema sono la conservazione delle risorse rinnovabili, l’adattamento delle colture all’ambiente, e il mantenimento di un livello di produttività moderato ma sostenibile. 
Il sistema di produzione deve:
ridurre l’uso dell’energia e delle risorse e regolare gli input complessivi di energia, in modo che il rapporto output/input sia alto.
ridurre le perdite di nutrienti attraverso un reale contenimento della lisciviazione, del deflusso superficiale e dell’erosione, ed aumentare il riciclo dei nutrienti attraverso la promozione di leguminose, concime organico e compost ed altri efficienti meccanismi di riciclo.
• sostenere la rete di output richiesti preservando le risorse naturali (minimizzando la degradazione del suolo)
• ridurre i costi, l’aumento dell’efficienza e la capacità di produrre profitti delle piccole e medie aziende , promuovendo un diverso sistema agricolo, potenzialmente elastico.
Da un punto di vista della gestione, i componenti di base di un agro-ecosistema sostenibile includono:
una copertura vegetale come effettiva misura di conservazione di suolo e acqua, raggiunta
attraverso l’uso di pratiche di non dissodamento, la coltivazione del mulch, l’uso delle colture da copertura, ecc.;
• un regolare apporto di sostanza organica attraverso il regolare aumento del concime, del compost e la promozione dell’attività biotica del suolo;
• i meccanismi di riciclo dei nutrienti mediante l’uso delle rotazioni delle colture, del sistema agricoltura/allevamento, delle leguminose, ecc.;
• La regolazione degli organismi nocivi ottenuta favorendo l’attività degli agenti di controllo biologico, raggiunta dall’introduzione e/o conservazione dei nemici naturali.

9 giu 2012

la Città Giardino del Futuro

 … o del Passato remoto?
Data di pubblicazione: 08.06.2012

Autore:

I nipotini della Thatcher col loro mito vittoriano un po’ caricaturale rischiano di produrre mostri, come certe idee di sostenibilità in urbanistica nei piani in formazione

Recentemente nel dibattito sulla riforma complessiva del sistema di pianificazione britannico (che non comprende solo gli aspetti urbanistici, ma anche la legge sul localismo e la partecipazione, i provvedimenti per la casa legati all’assistenza sociale ecc.) si è inserita autorevolmente la Town and Country Planning Association, con un documento di ampio respiro che auspica un ritorno allo spirito originario delle Città Giardino, declinate secondo i contemporanei criteri della sostenibilità e della risposta ai nuovi obiettivi sociali, economici, climatici, energetici. Di particolare interesse, visto il tipo di interlocutore politico governativo, a dominanza Tory, era il sostanziale ottimismo con cui la TCPA sembrava leggere tutto il percorso di riforma prospettato e sin qui attuato dalla coalizione conservatori-liberali, in particolare riguardo alle potenzialità di un nuovo patto fra stato centrale e territori, fra pubblico e privato, fra esigenze ambientali e di crescita economica.

Anche altre associazioni, come la Campaign to Protect Rural England, o il prestigioso National Trust (che conta fra i suoi iscritti tale David Cameron) pur nella chiarezza delle posizioni rispetto alla riforma del Planning Framework avevano dato segnali analoghi. Ma questo atteggiamento, a ben vedere e abbastanza ovviamente nella logica conservazionista, si spiegava in sostanza “in negativo”, ovvero una volta messo al sicuro il proprio territorio di beni culturali e paesaggi da tutelare, il resto non importava gran che. Profondamente diverso il caso TCPA, che nell’evocare alcuni caratteri del programma originale di Ebenezer Howard (un po’ meno le prospettive stataliste delle New Town post belliche) indicava linee forti di possibile sinergia coi programmi neoliberali di nuova partecipazione pubblico-privata allo sviluppo nazionale, in una prospettiva di sostenibilità al tempo stesso ambientale ed economico-sociale. Ora però arrivano i fatti, che come tutti sanno aiutano a capire meglio cosa c’è dentro le dichiarazioni di principio. 
Non paiono tanto consolanti, questi fatti. Lo si era visto già con i progetti in joint-venture delle eco-città all’epoca di Gordon Brown, miseramente crollati proprio studiandone la sostenibilità, spesso ridotta a trucchetti ridicoli come travestire burocraticamente da “recupero di area dismessa” la cementificazione di ettari di pascoli, o calcolare la riduzione delle emissioni senza tener conto dei trasporti privati. Ma si trattava appunto di progetti di iniziativa privata, anche se in collaborazione con comuni e contee. Quello che è stato pubblicato questa settimana dal Warwick District Council però è un piano urbanistico, o per meglio dire un allegato-linea-guida che rafforza (o dovrebbe rafforzare) gli indirizzi generali del nuovo piano urbanistico, oggi nella fase di dibattito pubblico. Il titolo riecheggia esplicitamente e volutamente proprio quello della TCPA: Garden Towns, Villages and Suburbs: a Prospectus. ma chi ci cercasse, con tutte le attenuanti del caso, una vaga ombra della carica utopica e riformatrice di Howard, sarebbe a dir poco deluso. Al massimo, siamo dalle parti di uno di quegli opuscoletti in stile new urbanism che qualche amministrazione americana prova cautamente a inserire nei piani locali, sperando di convincere gli operatori ad allontanarsi un pochino dal modello della villettopoli coatta. Ma niente di più.

Ecco, se la Città Giardino è evocata, in questa prima piccola prova “istituzionale” del nuovo corso urbanistico di centrodestra, lo è nei suoi aspetti storicamente deteriori, ovvero prima nella citazione del villaggio tradizionale britannico voluta a suo tempo e abbastanza casualmente da Raymond Unwin (e che non a caso tanti critici avevano sfottuto), e poi nel lodevole ma sconfitto modello di adattamento alla mobilità automobilistica introdotto da Stein-Wright a Runcorn, non certo prototipo di sostenibilità come voleva essere, ma madre involontaria di tutti i cul-de-sac dell’urbanizzazione dispersa. L’allegato al piano del Warwick District Council, insomma, più che insediamenti sostenibili evoca certa comunicazione immobiliare da televisioni private, naturalmente di alto profilo, e altrettanto naturalmente inserita in un programma di sviluppo locale anziché appesa al nulla di uno svincolo o di una rotatoria in mezzo ai campi.

Si legge anche dell’esigenza di coordinare casa, servizi, posti di lavoro, trasporti … ma pare proprio il minimo, trattandosi appunto di un documento urbanistico pubblico. Resta aperto il dubbio: ma saranno tutti così, questi piani sedicenti sostenibili? Queste Città Giardino che ricordano più la omonima lottizzazione speculativa immersa nel verde voluta in pieno ‘800 dal magnate Alexander Stewart, che non l’utopia sociale di Ebenezer Howard a cavallo fra i due secoli? Vedere per credere, disegnini compresi, nel pdf scaricabile di seguito.

6 giu 2012

perché si stanno spostando a ovest?

La rottura della faglia e le scosse: perché si stanno spostando a ovest?

1 I picchi più intensi dei terremoti che hanno colpito la pianura Padana si sono mossi nel tempo, non hanno cioè colpito sempre lo stesso luogo. Dove si sono scatenati?
I geofisici scrutano con attenzione i punti in cui la terra trema più violentemente perché rappresentano dei punti di riferimento attorno ai quali costruire delle spiegazioni su quello che succede nel sottosuolo. Si tratta di un’arte complicata dal fatto che non sono note in dettaglio le caratteristiche sotterranee e, soprattutto, come il suolo stia reagendo dopo la scossa violenta (5.9 della scala Richter) del 20 maggio scorso, preceduta nella stessa area qualche ora prima da un sisma della magnitudo di 4,1.
L’ipocentro era a 6,3 chilometri di profondità tra le provincie di Modena (Finale Emilia), di Ferrara, Rovigo e Mantova. Immediatamente dopo venivano rilevati un paio di picchi (il maggiore 5.1 della scala Richter) che colpivano invece leggermente più ad est. Ma a segnare l’andamento in maniera più marcata e nella direzione opposta, cioè verso ovest, era il grappolo di terremoti del 29 maggio (5.8 della scala Richter, il primo) seguito rapidamente da altri due con valori intorno ai cinque gradi (5.3 il massimo). Questa è stata la giornata con il maggior numero di picchi massimi scatenati tutti nella mattinata.
L’evento allargava il fronte del sisma di una decina di chilometri raggiungendo così i cinquanta chilometri.
Il terzo atto si registra il 3 giugno (con 5.1 della scala Richter). E si manifesta nella stessa area del precedente del 29 maggio, quindi sempre in direzione ovest.
2 A questo punto si può pensare che, se ci saranno altre scosse, continueranno sempre verso occidente?
Naturalmente non si può sapere perché è impossibile predire quando, come e dove si manifestino. Si può per il momento tracciare un andamento che servirà poi, una volta il fenomeno sia ritenuto concluso, a descrivere il suo svolgimento e tracciarne la storia. La migrazione dei picchi, cioè il loro andamento, è interessante per ipotizzare ciò che accade.
3 Ma perché questo modo di procedere?
La prima scossa, la più violenta, è quella che ha segnato l’evento. Tutte le altre che si stanno succedendo sono ritenute la coda del colpo più intenso. E rientrano in un quadro conosciuto e ipotizzabile.
4 Qual è il meccanismo che provoca la successione degli eventi nel tempo?
Tutto avviene in una fascia di sottosuolo tra i dieci e i quindici chilometri di profondità. L’energia che si era accumulata in centinaia di anni, ad un certo punto si è scaricata il 20 maggio causando il primo sisma. Ma quel giorno il livello della sua intensità non aveva evidentemente liberato tutta l’energia generata dalla spinta degli Appennini verso le Alpi. Anzi se ciò fosse accaduto si sarebbe verificato un terremoto ben più forte dei 5.9 gradi di magnitudo con effetti ancora più disastrosi per l’ambiente e soprattutto per la popolazione.
5 Da quel momento massimo la rimanente energia dove è finita?
Continua ad uscire con gli eventi che vengono registrati in grande numero. La quantità totale deve essere stata consistente se riesce a farsi sentire periodicamente con livelli che superano i cinque gradi oltre alla intensa sequenza di piccole scosse.
6 Ma, in pratica, che cosa sta succedendo nel sottosuolo?
Tutta l’area caricata nel tempo si sta rompendo in piccoli pezzi lungo una linea di faglia est-ovest continuando un processo innescato il 20 maggio con la rottura più rilevante. Il punto è che il tipo di frammentazione delle strutture sotterranee dipende dalla distribuzione delle caratteristiche geologiche che i geologi non conoscono e non possono certo immaginare a tavolino.
7 Quindi il fenomeno potrebbe proseguire a lungo?
Questo non è possibile dirlo anche per un altro motivo. Oltre alla quantità di energia che entra in gioco e deve sfuggire, interviene un fenomeno di influenza nella sequenza delle fratture che è oltremodo eterogeneo e va a complicare ulteriormente le cose e, insieme, la loro spiegazione.
8 Come è possibile tenere sotto controllo una situazione così diffusa e complessa?
L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) segue gli eventi avvalendosi della «Rete accelerometrica nazionale-Ran» distribuita in tutte le regioni della Penisola. Nel 1997 era gestita dall’Enel e disponeva di 237 stazioni analogiche. Oggi invece è controllata dal Servizio di monitoraggio sismico del territorio della Protezione Civile e, dopo aver iniziato nel 2007 la conversione della tecnologia, adesso è formata da 464 stazioni digitali che convogliano i dati al centro di acquisizione Ran di Roma.
Tutti gli strumenti misurano le accelerazioni del suolo.
Dopo il primo sisma nella Val Padana sono state installate altre stazioni mobili per aumentare il dettaglio nel controllo del fenomeno. Nell’occasione sono scesi anche i geofisici francesi con i loro apparati per cui, complessivamente, si sono aggiunti oltre una trentina di nuovi rilevatori.
(Le risposte sono state redatte con la collaborazione di Massimo Cocco dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia).
di Giovanni Caprara, corriere.it

22 mag 2012

Friburgo, Vauban

Quartiere speciale in una città speciale
Data di pubblicazione: 29.09.2010

Autore:

Quando la trasformazione delle città non rappresenta una mera occasione di valorizzazione immobiliare, si aprono straordinarie possibilità. Come a Vauban, quartiere di Friburgo in Brisgovia

Come sarà la città “resiliente”, ovverosia capace di adattarsi alle condizioni del futuro, in uno scenario post-petrolifero? Piste ciclabili e strade libere dalle auto collegano le case-solari ai negozi, alle aree verdi e ai servizi, oppure ad una fermata del tram per raggiungere un posto più lontano in città. Davanti alla scuola i genitori aspettano in bici o a piedi i loro figli, e non rinchiusi nelle loro auto. È presente un negozio dove gli agricoltori del posto vendono prodotti biologici… Uno stereotipo? Un’utopia? Non esattamente, dato che stiamo descrivendo il quartiere Vauban a Friburgo.

Il quartiere Vauban di Friburgo costituisce un esempio di straordinario interesse. Proprietà pubblica dei suoli, regia complessiva del processo di attuazione (dall'ideazione alla realizzazione), socializzazione degli incrementi di valore del suolo derivanti dall'urbanizzazione, trasparenza dei processi e ampio spazio alla partecipazione, inquadramento delle realizzazioni all'interno di politiche urbanistiche e ambientali unitariamente concepite...
Questi e altri requisiti, peraltro condivisi in molte esperienze di rinnovo urbano e di realizzazione di nuovi insediamenti promosse nel nord Europa, sembrano indispensabili per assicurare che le operazioni di trasformazione delle città assicurino vantaggi per gli abitanti futuri e per tutti i cittadini, e non rappresentino mere occasioni di valorizzazione immobiliare.

Terry Tondro: una passione per l’urbanistica, e la buona tavola

di Anne Hamilton 















































































Scomparso negli Usa un urbanista militante, che ha operato per migliorare la tutela sociale e quella dei beni culturali nelle pratiche urbane. The Hartford Courant, 18 maggio 2012

Titolo originale: A Passion For Urban Planning, And For Food – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La vita di Terry Tondro ha toccato cose diversissime. Professore di diritto lontanissimo dall’accademico nella sua torre d’avorio, adorava la buona tavola e il buon vino, preferendo cucinare da solo. E adorava le città: profondamente urbanista, ma che sapeva apprezzare l’oceano e l’aria frizzante del Maine rurale. Conoscitore della musica operistica, ascoltava anche con passione Ella Fitgerald. Ha lavorato per tutelare edifici storici, ma anche contribuito a realizzare case per e meno abbienti e la popolazione di colore. Uomo d’azione, Tondro, ma che faceva ogni cosa con stile e buon gusto. Affermato e riconosciuto esperto nel campo dell’urbanistica e del territorio, rimase sempre una persone umile.

"Era un egualitario nel profondo" ricorda il figlio Trevor. "Detestava apparire in qualche modo snob, pretenzioso, superiore rispetto agli altri. Era più un tipo dalle maniche rimboccate che uno con la camicia inamidata". Tondro è morto a Hartford, dove abitava, per un infarto in 26 aprile, due settimane prima del 74° compleanno. Era nato il 7 maggio 1938, cresciuto sulla sponda dell’oceano a Santa Monica, California, vicino a Los Angeles. Maggiore dei cinque figli di Lloyd e Italia Tondro (famiglia francese, il cognome originario si scrive Tondreau). Padre imbianchino, gran sostenitore di Franklin Delano Roosevelt e dell’idea di pari opportunità per tutti. Tondro inizia a lavorare in un caffè, poi in un elegante ristorante sul Wilshire Boulevard a Los Angeles durante le medie superiori. Il tutore scolastico gli consiglia ("un tipo senza troppa immaginazione" giudica oggi la moglie di Tondro) di iscriversi alla Scuola Superiore Alberghiera della Cornell University per diventare uno chef. Contemporaneamente Tondro ottiene anche una borsa per la Stanford University.

Desideroso di viaggiare sceglie la Cornell, ma dopo due anni a studiare “ospitalità” e raffinate tecniche di cucina, vuole passare ad un percorso di studi diverso. L’iscrizione al Reserve Officer Training Corps gli garantisce la copertura finanziaria. Dopo aver ottenuto il diploma nel 1961, Tondro entra nell’Esercito, e davanti alla scelta fra i carristi (servizio in Germania) e i paracadutisti (servizio nel territorio dello stato), opta ancora per la destinazione più lontana. Sfrutta le vacanze per viaggiare in Europa. L’idea originaria era di proseguire gli studi in Storia Americana, ma dopo il servizio militare ha imparato il valore dell’esperienza pratica, di “fare delle cose”. E così si iscrive a Legge. Per ingannare l’attesa dei corsi che cominciano solo nell’autunno 1964, Tondro torna in California dove lavora come istruttore di guida. Una delle allieve è Helle Stueland, giovane norvegese appena laureata all’Università di Berkeley. Si vedono regolarmente dietro il volante di una VolksWagen. Quando Helle si trasferisce a est l’inverno seguente sono ufficialmente fidanzati, si sposeranno nel giugno 1965.

Tondro ha ottimi voti alla Scuola di Diritto della New York University, e dopo aver ottenuto il titolo lavora per un anno all’Office of Economic Opportunity nel quadro del programma di Guerra alla Povertà del Presidente Lyndon B. Johnson: un’esperienza molto formativa. Per un breve periodo collabora anche con la fabbrica di calzature Paul Weiss di New York, salvo scoprire che detesta il diritto privato. Si iscrive allora alla Yale University per studiare urbanistica sino a ottenere una specializzazione in American Studies. Nel 1973 inizia a insegnare diritto all’Università del Connecticut, proprio nel momento in cui la città di Hartford sperimenta un percorso urbanistico chiamato Hartford Process. Progetto fallito, ma Tondro ha trovato la sua collocazione.

È coautore di una memoria presentata alla Cortre Suprema del Connecticut su un caso di variante all’ordinanza di zoning per East Hampton che impone una superficie minima degli alloggi di cento metri quadrati, considerata discriminante per i poveri (la corte stabilirà che si tratta di un provvedimento irrazionale e senza giustificazioni imposto dall’amministrazione, e lo boccia). Svolge approfondite ricerche su vari casi di destinazioni d’uso e zoning traendone un testo che diventerà per decenni una specie di bibbia per costruttori, urbanisti, amministratori e magistrati. "È stato in pratica un manuale per come prendere le decisioni in quell’area" commenta Dwight Merriam, esperto di diritto urbanistico di Hartford, che ne ha una copia tenuta insieme da strisce di nastro adesivo. Oltre a studiare casi, Tondro aveva inserito anche commenti propri di carattere più generale, sulle sentenze per le l’ambiente, le lottizzazioni, lo sviluppo urbano. Alle assemblee si portavano tutti il libro di Tondro, Connecticut Land Use Regulation: A Legal Guide for Lawyers, Commissioners, Consultants and Other Users of the Land tenendolo aperto sulle ginocchia.
“Facevamo a gara fra chi citava meglio quei passaggi scritti da Terry e che consideravamo più importanti per il nostro punto di vista" ha ricordato il magistrato Mark Dubois nella serata dedicata a Tondro. "Era diritto urbanistico reso accessibile a tantissimi" ricorda Tim Hollister, relatore di maggioranza per il caso East Hampton. "Aveva opinioni molto nette e non mancava mai di schierarsi chiaramente. Testimoniava anche cosa volesse dire esprimere un punto di vista disinteressato sulle scelte". Fu nominato dal Governatore William O'Neill presidente della Blue Ribbon Commission on Housing, e scrisse gran parte dei provvedimenti che oggi consentono di introdurre quote di case economiche in trasformazioni di abitazioni più costose, rendendo molto difficile per le amministrazioni escludere dal proprio territorio le case popolari. Secondo Tondro il sostegno alla casa per tutti non doveva arrivare solo dai comitati per i diritti, ma anche da chi come l’amministrazione vuole un alloggio per i ceti medi. A differenza di tanti professori che vivono in un mondo fatto di aule e biblioteche, Tondro apprezzava la militanza, vedere le proprie idee trasformarsi in realtà."Era uno di quei tipi di accademici, sempre più rari, davvero disponibili a partecipare e schierarsi sulle questioni urbane. Teneva un piede in entrambe le scarpe: gli studi, e la partecipazione urbanistica" ricorda Merriam.

Nella scuola legale, Tondro insegnava vari aspetti del diritto."Era abbastanza concentrato sugli aspetti economici delle trasformazioni, come la finanza influisca sulle capacità dei costruttori, sul rischio che una separazione per zone induca una divisione di classe” ricorda Michael Ziska, ex studente che ricorda Tondro come maestro. “Terry cercava sempre di unire pianificazione urbanistica e la possibilità di case per tutti. È grazie alle sue capacità che abbiamo fatto progressi". Da ragazzo Tondro aveva aiutato il padre nei lavori di manutenzione edilizia, e capiva essenzialmente il settore. Gli piacevano molto gli edifici storici, in particolare a Hartford quelli in stile vittoriano del XIX secolo. Nel 1973, quando sorse la protesta per la demolizione di un edificio storico sulla Prospect Avenue a Hartford, Tondro entrò nella Hartford Architecture Conservancy partecipando poi ad altre battaglie di tutela, con la Connecticut Trust for Historic Preservation, di cui fu presidente di sezione, e consigliere del Trust for Historic Preservation nazionale.

Fu approvata una legge sugli sgravi fiscali che rendeva più conveniente per le proprietà conservare gli edifici storici. “Terry vide la possibilità che in Connecticut si potesse fare tutela” ricorda Jared Edwards, architetto fra i fondatori della Hartford Conservacy. Tondro coinvolgeva ex studenti diventati deputati statali per sostenere il disegno di legge, che avrebbe protetto tanti edifici anche industriali. “Nel suo modo molto posato faceva notare quanto lo stato dovesse assumere un ruolo guida per gli investimenti privati nella tutela" ricorda Edwards. “Mise le basi per leggi che hanno ottenuto enormi risultati per decenni”. Svolse anche un ruolo essenziale per la destinazione a parco nazionale della tenuta agricola Wilton, del pittore impressionista ottocentesco J. Alden Weir. “Col suo talento arrivava a risultati che si ritenevano impossibili”.

Tra le grandi passioni di Tondro c’era anche la buona tavola. Dopo aver trascorso un mese in Italia con la famiglia nel 1978, era tornato portandosi ricette di cucina del tutto nuove: niente a che vedere con il solito sugo alla marinara, spaghetti e polpette. Le sue cene erano la leggenda di tutto il West End a Hartford. “L’invito era per le sette, si cominciava a mangiare alle nove, e ci si alzava all’una di notte” ricorda ancora Edwards. “Quando eravamo convinti di aver finite, ecco che spuntava un altro piatto ancora più elaborato. ... Quella sì che era vita. Certo con dieci chili in più”. Quando stava con la famiglia a New York andavano all’opera due volte la settimana, biglietti posti in piedi da uno a tre dollari. Lo facevano anche abitando in Connecticut. Dal 2000,dopo il pensionamento, passava ogni anno sei mesi con la moglie a Roma, studiando la lingua, sperimentando la la cucina, frequentando concerti e musei, soprattutto passeggiando per la città.

Tondro adorava le cravatte a papillon, che indossava con molto stile. Negli ultimi anni aveva avuto qualche piccolo attacco, ma anche quest’inverno era comunque andato qualche mese a Roma. Oltre alla moglie lascia due figli e tre nipoti. È sepoloto al Cimitero dei Veterani di Middletown. Molto adatto a lui, commenta la moglie: tutti con la medesima lapide, indipendentemente dal grado o dalla posizione sociale. Col rumore delle auto che ricorda a tutti quanto nonostante il prato verde si sia sempre in città. “Aveva un senso egualitario difficile da descrivere” ricorda Bill Breetz, vicino di casa ed ex collega di insegnamento. “Una cosa che ha attraversato tutta la sua opera: le case popolari, un’urbanistica inclusiva, la tutela per tutti della Weir Farm, e fare delle città posti migliori per viverci”.

18 mag 2012

Social Media Marketing

Digital marketing is confusing—really confusing—as this insane graphic shows (below).
Trying to navigate through the various new social media categories, blogs, sharing sites, and social media firms is an absolute mess.
This depiction of the digital marketing landscape was shown at a Buddy Media event marking the launch of the social marketing software agency's new suite of measurement tools.
You can click to enlarge it, but that won't make it look any simpler.
Bonus points for reader Ryan, who realized Pinterest isn't on there.

15 mag 2012

fioriture urbane

"Noi siamo Orchidee - dicono da sole-, nulla ci può essere contrapposto capace di occultarci; nè occorre che spendiate molte delle vostre fatiche, o signori floricoltori, perchè noi si mostri le nostre virtù, non ci occorre terra, non ci necessita superficie, inutili le vostre premure, lasciateci quassù a cavallo di questo ospitale pezzo di legno morto, lasciate che le nostre radici penzolino nell'aria, lasciateci in gran pace, non desideriamo altro che acqua dalle vostre mani, visto che ci avete tolte dalle nostre patrie dove il cielo ci assisteva come ci conveniva; limitatevi a gustarci se avete occhi per vedere, narici per percepire, animo per sentire"

La chiamiamo Stella di Natale, anche se in realtà si tratta di un arbusto di origine centro americana, che riscuote grande successo sotto le feste natalizie da alcun decenni, perchè è una bellissima pianta da appartamento che produce le sue spettacolari infiorescenze proprio durante l'inverno, è quindi adatta ad abbellire la casa durante le feste.
Appartiene al genere Euphorbia, e in natura sviluppa arbusti di dimensioni grandi o medie, che possono raggiungere i due metri di altezza; le varietà selezionate per la coltivazione in appartamento sono decisamente più contenute, e in genere nel corso degli anni si mantengono al di sotto dei 100-120 cm di altezza. Hanno grandi foglie vellutate, di colore verde scuro, che tendono a colorarsi di verde sempre più chiaro se la pianta viene posta in luce diretta molto intensa; i fusti sono carnosi, semi succulenti e secernono un lattice tossico, che può causare irritazioni cutanee se viene in contatto con la pelle delle mani; evitiamo di sfregarci gli occhi mentre maneggiamo la stella di natale, perchè il lattice è velenoso.

6 mag 2012

la disoccupazione creativa

È LA DISOCCUPAZIONE CREATIVA CHE CI DIFENDERÀ DAL MERCATO
di FRANCO LA CECLA, da “la Repubblica” del 13/4/2012
 
   Sono passati più di trent’ anni da quando Ivan Illich scrisse un corrosivo pamphlet, “Il diritto alla disoccupazione creativa“, nel quale teorizzava che contrariamente alle preoccupazioni sulla piena occupazione e al verbo di sinistra e di destra sul valore del lavoro c’era un’altra via, quella di concepire la propria disoccupazione come un’occasione straordinaria per uscire dalle logiche solite del salario e del mercato.
   Illich rivendicava uno spazio alla disoccupazione creativa nel quale si mettevano in dubbio le logiche che avevano trasformato il lavoro in qualcosa da fare per un salario e invece si riscattava la natura liberatoria di pratiche, azioni, saper fare, attività individuali e collettive che lui chiamava vernacolari. Vernacolare era secondo lui quello che nasceva dalla logica del fare qualcosa per sé o per gli altri, dall’orto all’asilo gestito in comune, dal mutuo appoggio al fare artigiano, artistico o letterario.
   Il diritto alla disoccupazione creativa leggeva nella schiavitù del lavoro salariato la peggiore delle maledizioni che l’uomo moderno si era inventato e nel recupero del fare per sé e per gli altri una magnifica strada per una società conviviale.
   Oggi le tesi di Ivan Illich sono riprese da Richard Sennett nel suo bel libro “Insieme” che racconta come i luoghi che più hanno costituito comunità e democrazia dal basso sono stati nella storia gli “workshop“, i laboratori artigiani proprio perché è nel fare con le mani, con il corpo e con gli altri che si crea quel legame che consente alle comunità di resistere alla stupidità suicida del capitalismo.
   L’ arte del fare cose belle, utili, insieme cioè dell’avere un saper fare individuale o collettivo è ben lontana dall’idea di lavoro propugnata da un neoliberalismo che vorrebbe tutti dequalificati e decentrati e che sembra diventato più un piagnisteo bancario che un progetto di società.
   Strano che in un paese come l’Italia che ha inventato la qualità del fare ci si faccia prendere in giro da formule di rilancio dell’economia che non tengono conto dello straordinario potenziale che hanno le pratiche in cui la gente si realizza, sente di essere utile, sente di possedere un mestiere.
   Mi sono commosso poco tempo fa visitando un laboratorio di sarti di altissimo livello in un paesino sperduto e bello dell’Abruzzo: le mani di sarti che vi lavoravano conoscevano stoffe e corpi che dovevano indossarle, sagomavano, davano il garbo a giacche, tendevano pantaloni e dettagliavano asole con una felicità che poi spiegava come mai tra i loro clienti c’era e c’è Obama, Clinton e tutti i James Bond.
   Ma la logica del lavoro artigiano di alta qualità è la stessa degli artisti che non pensano di “lavorare” quando dipingono o quando scolpiscono, o degli scrittori che non ragionano con un tanto a parola, ma con la soddisfazione che gli viene mentre buttano giù le righe. Effettivamente la crisi attuale potrebbe essere un modo di uscire finalmente dalla logica risicata dei banchieri e degli economisti nostrani.
   È solo l’ energia, la gioia, la creatività, quella che soprattutto hanno i giovani a potere inventare “valore”. Il valore, e questo gli economisti una volta lo sapevano, esiste prima del denaro. In altri paesi è così che si è fatto il salto in avanti, dando spazio proprio a queste arti e a queste culture del fare spremendo l’entusiasmo giovanile nelle passioni pratiche.
   Ma come si fa ad aspettarsi una cosa del genere in un paese come l’Italia che ha pianificato il genocidio dei propri giovani, che è stata la prima generazione a ricordo d’uomo ad avere deciso che per i giovani non c’era altra strada che quella di mettersi in ginocchio di fronte agli sdentati e pavidi adulti.
   In Cina, in Brasile, in Argentina, in India gli artisti, gli artigiani, coloro che si riappropriano delle risorse della terra, le cooperative di consumo, le cooperative di autocostruzione, l’educazione autogestita, i social network, l’informatica come accesso alle informazioni e come dibattito e discussione, tutto questo ha consentito e consente il “grande balzo in avanti”.
   E non si tratta della banalizzazione delle idee di Ivan Illich operata oggi da coloro che si battono per la decrescita. La decrescita è ancora nella logica economica. Qui si tratta di riappropriarsi del valore del tempo, dei gesti, delle pratiche, dei saper fare e saper dire, del saper stare insieme e sapere gestire le risorse naturali e culturali. Il tesoro che i banchieri tanto cercano sta qui, e non si tratta di tirare la cinghia ma proprio del contrario dell’avere della vita e della società una concezione ricca e creativa.
   Quella che l’Italia ha insegnato al mondo nella sua passione per il bello, l’interessante, il fatto bene e che è stata cancellata dal ventennio più volgare che questo paese abbia avuto. Ma chissà che invece la crisi non aiuti anche noi a riscoprire il “valore” del valore. – FRANCO LA CECLA

3 mag 2012

GAT (Gruppi di Acquisto Terreni), questi sconosciuti


di Claudio Riccardi il 19 aprile 2012 · 0 commenti

27 apr 2012

Terreni agricoli del demanio statale


Un'opportunità per l'economia dei beni comuni
di Stefano Corazza, da eddyburg, 26.04.2012


Bisogna porre riparo alla grave sciocchezza di vendere il demanio rurale invece di utilizzarlo per migliorare la vita di tutti e la stessa economia. Scritto per eddyburg, 26 aprile 2012

Un gran numero di Associazioni, Onlus, collettivi, cooperative etc. comprendenti da AIAB a Campi Aperti, da Crocevia a Civiltà Contadina, da Libera a Slow Food, hanno con manifestazioni, presidi, lettere alle commissioni parlamentari, preso posizione sulla vendita dei terreni agricoli demaniali che il Governo Monti ha di recente approvato (Decreto1/2012). La norma che la prevede è contenuta nel cosiddetto “decreto liberalizzazioni” (all'art.66) che specifica e in qualche misura aggrava quanto già previsto dalla legge del 12 novembre 2011.

In alternativa alla vendita dei terreni “agricoli o a vocazione agricola” demaniali, auspicata anche da CIA e Coldiretti, gli oppositori proponevano la concessione in affitto a equo canone, con priorità ai giovani agricoltori per:
- contrastare ai processi di ulteriore concentrazione della terra agricola nelle mani di un sempre minore numero di aziende di grandi dimensioni (un “landgrabbing” a scala nazionale) con conseguente drastica riduzione delle piccole proprietà contadine considerate più virtuose quanto a distribuzione dei redditi e cura della terra;
- l'esclusione di occasioni e facilitazioni per il riciclaggio, nell'acquisto della terra, di risorse finanziarie originate da attività criminali;
- l'esclusione di opportunità per speculazioni immobiliari possibili con l'ottenimento di cambi di destinazione d'uso dei terreni alienati.

L’iniziativa, pur non avendo ottenuto alcun esito, ha avuto il merito di porre sulla questione ipotesi diverse certamente più interessanti e con prospettive meno limitate del far cassa vendendo un bene demaniale, ma forse questa occasione costituisce una opportunità per affermare e iniziare a praticare, attraverso un progetto mirato, un paradigma economico-sociale e politico davvero alternativo centrato sul lavoro, la biodiversità e i servizi ecosistemici, la terra e i suoi prodotti come bene comune, la solidarietà, la condivisione.

Il progetto

Secondo l'Agenzia del Demanio, che utilizza dati del Censimento per l'Agricoltura 2010, l'estensione dei terreni agricoli demaniali sarebbe di oltre 338.000 ha. per un valore che oscilla fra 5 e 6 miliardi di Euro ma è facile prevedere, anche sulla base di passate esperienze di vendita di beni pubblici immobiliari che, un po' per la scarsa capacità di vendita da parte degli enti pubblici, un po' perchè a fronte di una tale ampia offerta i prezzi scenderanno, un po' perchè sono sempre in agguato meccanismi clientelari e abusi, l'ammontare complessivo di introiti derivanti dalla svendita potrebbe essere di molto inferiore alle previsioni.

Dove si trovano questi terreni? In quasi tutte le regioni; dal Piemonte (56000 ha) al Lazio (41000 ha), dalla provincia autonoma di Trento (30000 ha) a quella di Bolzano alla Lombardia e Basilicata (oltre 20000 ha). Oltre i 10000 ha sono anche in: Calabria, Toscana, Campania, Veneto, Marche, Puglia, Molise e Sardegna. Una distribuzione piuttosto uniforme tra Nord Centro e Sud del Paese tale da rendere equa, in senso geografico anche una distribuzione dei benefici possibili con un progetto nazionale per affrontare le decisive implicazioni che la questione della terra riveste per il Paese e il suo futuro “possibile”.

Le questioni connesse alla vendita di questo patrimonio pubblico vanno infatti ben oltre le pur rilevanti criticità presenti nel settore agricolo da diverse parti evidenziate ed investono temi quali la conservazione del suolo, del paesaggio e della biodiversità, la qualità del lavoro, le relazioni sociali.

Intanto è certo che anche la semplice cessione in affitto dei terreni demaniali non risolverà comunque il problema dell'accesso al credito del settore che vede, soprattutto i piccoli e i giovani agricoltori dover contare solo sulle proprie limitate risorse, strozzati come sono da banche sempre più avare. Altrettanto certo è che le piccole aziende che riuscissero ad ottenere la terra, in proprietà o anche in affitto, continuerebbero ad essere escluse dall'enorme torta degli aiuti comunitari all'agricoltura che viene distribuita soprattutto a grandi aziende o consorzi di trasformazione e commercializzazione del prodotto agricolo (spesso per riconversioni che riducono i posti di lavoro) lasciando meno che briciole ai piccoli agricoltori.

E' ancora altrettanto certo che cedere semplicemente in affitto i terreni non inciderà minimamente sul problema della distorsione della filiera di distribuzione e commercializzazione dei prodotti agricoli che: strozza i produttori pagando il prodotto al di sotto dei costi di produzione; spreca energia nella conservazione del prodotto e nel suo trasporto; distrugge grandi quantità di prodotto come eccedenza; banalizza la qualità aprendo le porte a prodotti di importazione, spesso di basso valore qualitativo e alimentare, realizzati a basso costo con sfruttamento del lavoro. Pesa, infine, in termini di costi, su un consumatore reso incapace /di o indifferente/a valutare: qualità del prodotto e del processo produttivo in senso allargato esteso cioè a fattori normalmente trascurati quali la qualità del lavoro, dell'ambiente fisico e biologico; le caratteristiche genetiche, biologiche, nutrizionali, organolettiche del prodotto; il sistema delle relazioni del territorio in cui avviene la produzione.

Il progetto a cui penso segue invece il sentiero tracciato negli ultimi anni da esperienze diverse che cominciano oggi a connettersi in reti sempre più estese e diffuse e che consentono di vedere già realizzato nella pratica un modo di produrre e consumare salvaguardando un futuro possibile per chi vive oggi, per i nostri figli e per il pianeta. Parlo dei produttori agricoli biologici e biodinamici, dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), delle esperienze di Libera nella gestione dei terreni sottratti alle mafie, degli agricoltori custodi della biodiversità agricola, dei mercati di prossimità e “a km0”, dei mercatini aziendali autogestiti dai produttori. Ognuna di queste esperienze fornisce materiale su cui costruire un progetto che in modo sistemico promuova la qualità del lavoro contadino, sia nel senso di renderlo ricco di saperi e “saper fare”, che riportandolo al centro di un sistema di relazione con le comunità del territorio riconoscendolo non soltanto per la qualità di ciò che produce per l'alimentazione e il consumo, ma per ciò che produce come conservazione di servizi goduti da tutti (i servizi ecosistemici) ed essenziali quanto il cibo per il nostro benessere. E così ricostruisca su una base territoriale identificata dalla dimensione di comunità umane partecipi e solidali, il rapporto città-campagna come sistema relazionale in grado di produrre qualità ambientale, salute fisica e mentale, valori etici, estetici ed in ultima analisi economici.

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3 apr 2012

impronta idrica

1 miliardo di persone non ha accesso a risorse idriche sufficienti. 1 persona su 6 ha meno di 20 litri d’acqua dolce al giorno, fabbisogno minimo giornaliero pro capite per assicurare i bisogni primari legati all’alimentazione e alle condizioni igienico-sanitarie. 2000-5000 litri: quantità di acqua necessaria per produrre il cibo che una persona mangia tutti i giorni (fonte FAO).

L’Analisi del Barilla Center for Food and Nutrition

Quanta acqua è contenuta in ciò che mangiamo? E quale quantità ne è servita per produrre gli alimenti che quotidianamente mettiamo sulla nostra tavola? Per misurare il reale impatto dei singoli alimenti, il Barilla Center for Food & Nutrition ha ideato un interessante modello della doppia piramide alimentare e idrica, che mette in relazione la tradizionale piramide alimentare con il relativo impatto dei suoi componenti: questa comparazione mostra come gli alimenti della dieta mediterranea, per i quali si consiglia un consumo alto e regolare, abbiano il minore impatto in termini di consumo di risorse idriche. Allo stesso tempo, quei cibi per cui la piramide alimentare consiglia un consumo moderato risultano essere quelli con la più alta impronta idrica. Adottare abitudini alimentari maggiormente “idrovore”, ad esempio troppo ricche in grassi e zuccheri, risulta essere negativo non soltanto in termini di salute per l’uomo, ma anche per il benessere del pianeta.
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La Doppia Piramide alimentare e ambientale e la Piramide alimentare e idrica, elaborate dal BCFN, sono state selezionate ed esposte dal Comitato del World Water Forum (Marsiglia, 12-17 marzo 2012) tra i migliori modelli alimentari per la salvaguardia dell’ambiente e delle risorse idriche.

Cosa Significa Impronta Idrica

Per misurare l’impatto di ciascun prodotto (commodity, bene o servizio) sulle risorse idriche del pianeta è stato realizzato un indicatore complessivo e multidimensionale chiamato water footprint (impronta idrica), che prende in considerazione il contenuto d’acqua virtuale di un prodotto, costituito dal volume d’acqua dolce consumata direttamente o indirettamente per realizzarlo, e calcolato sommando tutte le fasi della catena di produzione.
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Impronta idrica delle bevande
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Impronta idrica degli alimenti
L’impronta idrica offre una più ampia e migliore visione dei consumi idrici da parte di un consumatore o di un produttore, mostrando i volumi d’acqua consumati per fonte e quelli inquinati per tipo di contaminante. Ad esempio, produrre un pomodoro richiede 13 litri di acqua, una fetta di pane 40 litri, 100 grammi di formaggio 500 litri, un hamburger 2400 litri d’acqua, una T-shirt 2000 litri d’acqua, un paio di scarpe di cuoio 8000 litri. Più in generale, il consumo d’acqua virtuale giornaliero per alimentarsi varia da circa 1500-2600 litri nel caso di una dieta vegetariana a circa 4000-5400 litri per una ricca di carne.