21 lug 2009

Né zone rosse, né zone franche

dall'intervento di Maurizio Donato al Forum per la ricostruzione sociale tenuto il 7 luglio al 3e32.

Di quale realtà questa crisi è lo spettacolo?
Tra i tanti tentativi messi in atto per delegittimare le ragioni del conflitto sociale in questi giorni, il più subdolo, ma anche il più sciocco, consiste nel cercare di mettere i comitati locali contro chi manifesta contro i presunti padroni della terra. E’ una provocazione evidente, testimoniata dalle parole del portavoce del governo che ha dichiarato da subito che con tale scelta «avrebbe voluto vedere con che cuore si sarebbe potuto manifestare a L’Aquila». Proprio perché abbiamo ancora un cuore e un cervello siamo qua, abruzzesi ma non solo, per analizzare – provando a renderlo esplicito – il legame stretto che esiste tra la gestione del post-terremoto e le più generali tecniche di governance di un capitalismo fallito e che si vorrebbe salvare con le risorse pubbliche pagate dai lavoratori e sottratte all’ambiente.

Il modo in cui il governo italiano sta affrontando il terremoto de L’Aquila interessa tutti proprio perché rappresenta la modalità normale con cui il capitalismo gestisce da alcuni anni a questa parte eventi eccezionali come terremoti, carestie, guerre, crisi economiche. Esproprio dei poteri decisionali delle comunità locali, militarizzazione del territorio, centralizzazione del comando nelle mani di organismi non elettivi: è la pratica dello stato di eccezione, diventato norma anche in un paese come l’Italia in cui lo stato di emergenza è stato dichiarato centinaia di volte,.......
....... per i rifiuti in Campania, per l’attraversamento di mezzi pesanti nella città di Messina, per la messa in sicurezza del Gran Sasso, per la guerra in Iraq, per «lo straordinario afflusso di extracomunitari», in ultimo per Viareggio.

E’ la legge istitutiva della Protezione civile [n° 225 del 24 febbraio 1992] che autorizza l’attribuzione di poteri speciali al capo della Protezione civile in relazione a «calamità naturali, catastrofi ed altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari».
Si tratta evidentemente di un testo di legge che , legando la straordinarietà non già all’evento, ma ai mezzi e poteri in grado di fronteggiarla, lascia volutamente nel vago i possibili ambiti di applicazione introducendo un notevole margine di discrezionalità nell’applicazione di una norma che si configura come la classica eccezione sovrana.

Gli spazi delle città e i tempi della vita quotidiana dei suoi abitanti vengono, con il pretesto degli eventi eccezionali, ridisegnati in una cornice emergenziale in cui nuove strutture di potere – nel caso italiano il Dipartimento della protezione civile – si assumono il compito di dettare legge sui comportamenti di persone non più considerate soggetti di diritti, ma sudditi oggetto di misure di disciplina e/o vittime da assistere e controllare, naturalmente nel loro interesse.
Il modello che viene fuori dalla gestione degli eventi eccezionali è un mix di militare e aziendale, composto da zone rosse e zone franche, divieti di organizzazione e di espressione del dissenso, assieme a pratiche economiche totalmente sottratte ai normali controlli di gestione.
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E’ una trasformazione radicale dei vecchi dispositivi tipici della democrazia rappresentativa, messi da parte in nome di una nuova logica in cui il governo è sostituito dalla governamentalità, quasi che il governo degli uomini dovesse venire assimilato a quello delle bestie, da cui in ultima analisi il termine prende la sua origine.
E’ l’intera struttura del dominio nel mondo occidentale che ritrova nel suo periodo di decadenza tracce del capitalismo delle origini, a partire dai meccanismi di accumulazione originaria che oggi come prima di due secoli fa tornano o continuano a basarsi sulla rapina delle risorse del Sud del mondo, sullo schiavismo, sulle guerre, sul neocolonialismo, sull’emigrazione.
Per cercare di giustificare queste modalità disumane in cui si presenta oggi l’imperialismo, un contesto in cui, a fronte di uno sviluppo senza precedenti delle forze produttive che consentirebbero al settore agricolo di sfamare il doppio della popolazione mondiale un miliardo di persone muore ancora di fame, non basta più la narrazione – tipica degli anni ’80 e della prima metà degli anni ’90 – basata sul refrain «ce la puoi fare», «tutti possono diventare imprenditori», o cose del genere.
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Sul piano macro, il non ottemperare ai diktat dell’imperialismo ha significato aggressioni militari ai paesi magari ricchi di risorse, di infrastrutture, con una classe operaia combattiva, ma restii a farsi dettare l’agenda dal Fondo monetario internazionale: guerre, a cui i governi italiani hanno partecipato e continuano a partecipare come nel caso dell’Afghanistan, un paese che non ha mai con tutta evidenza né attaccato né minacciato l’Italia e che però è invaso da truppe straniere comprese quelle italiane che si trovano lì fuori e contro la Costituzione ridotta a carta straccia.
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In realtà non sono i paesi cosiddetti «in via di sviluppo» che non ce la fanno, visto il paradosso per cui il risparmio mondiale si forma oggi al Sud: sono loro che non ce la fanno, il G8. Ma loro si autoassolvono, si salvano con le risorse pubbliche e si perdonano.

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Da questo punto di vista, i campi de l’Aquila, così come le nuove tendopoli che sorgono nelle città americane, rappresentano solo l’ultimo esempio di modelli di sperimentazione sociale con il pretesto dell’emergenza il primo dei quali è rappresentato dai campi profughi palestinesi la cui tragedia comincia nel 1948 e che in questi mesi vede la ricostruzione di Gaza materialmente impedita dall’esercito di Israele che vieta l’entrata nella striscia non solo alla solidarietà internazionale, ma anche ai carichi di cemento.

La logica dell’emergenza agisce grazie a dispositivi di governance in cui il ruolo della comunicazione è centrale. Anche in questo caso il copione recitato dai mezzi di disinformazione a proposito del terremoto è stato scritto in precedenza, con in più quel tocco di cafonal in stile Fininvest che caratterizza il caso italiano.
La gestione mediatica degli eventi eccezionali si alimenta di miti, uno dei quali è quello per cui un disastro come un terremoto o una crisi economica è certamente un evento negativo, ma «anche un’opportunità da sfruttare», evitando accuratamente di aggiungere per chi.

Nel nostro caso l’opportunità sarebbe rappresentata dal G8, ma gli abitanti de L’Aquila che vivono il terremoto e non assistono al suo spettacolo hanno avuto ben presto l’intelligenza di capire che – ad oggi – i lavori di preparazione del circo G8 hanno avuto come unico effetto visibile quello di rallentare i lavori di ricostruzione. Altri effetti per così dire collaterali riguardano la militarizzazione del territorio, anche questa più che visibile, e l’aggiudicazione di appalti miliardari sottratti alle normali procedure, più opachi, ma gestiti dalla stessa consorteria aziendal-militare che prospera attorno alla Protezione civile.
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Ma non solo. La natura di un evento eccezionale come una crisi economica o un terremoto è altresì in grado di rivelare, in filigrana, la cartografia di rapporti di potere spesso resi opachi nelle situazioni «normali». Si sa più e meglio chi ha costruito la tal casa, l’ospedale, chi non ha vigilato sulla casa dello studente, e quest’informazione diffusa nelle comunità può produrre, come sta accadendo nel nostro caso, una presa di coscienza, la nascita di aggregazioni nuove, la possibilità di conflitti e di controllo sociale, e allora la macchina del controllo informativo spettacolare si deve mettere in moto per disinnescare la mina cercando, da un lato, di depotenziare i conflitti dividendo il fronte di chi resiste, per esempio mettendo la comunità contro i ‘forestieri’, dall’altro cercando di restaurare la fiducia scossa nelle istituzioni in ogni modo possibile.
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Non ricostruire il centro storico di una città vuol dire minare alla radice l’anima di una comunità, questo è ben chiaro a tutti, mentre – forse – meno evidente è il modo in cui le relazioni sociali determinano il destino di chi viene maggiormente colpito dagli eventi eccezionali, i cui danni si distribuiscono lungo linee di frattura definite dalla classe di appartenenza, dalla razza, dal genere, dall’età.
Non è vero che un evento eccezionale unisce solo: questo accade all’inizio, poi le relazioni sociali e di potere, in assenza di un protagonismo sociale consapevole, non solo riemergono, ma spesso si rafforzano, così come dalle crisi economiche emergono pochi grandi gruppi economici e finanziari che rappresentano un grado maggiore di centralizzazione del capitale.
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Gli «specialisti del dolore» spiegano che ci sono delle fasi nella sequenza del «post-disastro», ma non si tratta solo di dinamiche psicologiche o individuali. Si tratta, per il potere, esattamente di sventare il pericolo rappresentato dalla messa a nudo dei rapporti sociali. Quando si verifica una catastrofe, la comunità colpita tende immediatamente a unirsi, e allora si tratta di dividerla, spesso con i soldi, se è poi una comunità «tosta» che intende far valere le proprie ragioni e i propri diritti, il problema per il potere è disinnescare questa mina. Rassicurando e re-imponendo l’ordine.

L’imperativo è evitare i conflitti sociali. A questo servono i provvedimenti di emergenza. A questo serve la ricerca di un capro espiatorio. A questo il ruolo di ‘salvatore’. In questo mito che ritorna, sempre uguale e sempre diverso, cambiano solo i nomi degli attori, non il dispositivo.

Nel caso della crisi economica il ruolo dei salvatori/pompieri viene oggi giocato dalle banche, lo stesso soggetto paradossalmente accusato pochi mesi prima di averla causata la crisi. Colpevoli, poi salvati [perdonati?], infine gratificati con un maggior potere di controllo e vigilanza su… su sé stessi.
La credibilità del potere sta a zero, altrimenti non si spiegherebbe la scelta di celebrare il G8 dei falliti facendosi scudo delle popolazioni de L’Aquila.
Un G8 consumato tra le macerie che spende più di tremila miliardi di dollari per salvare banche e imprese fallite mettendo sotto ipoteca ogni possibilità di spesa sociale per i prossimi anni è la migliore metafora del capitalismo che potessero inventarsi.

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