3 lug 2009

Un'immotivata repressione preventiva

di Collettivo San Siro
da Carmilla
Il 10 giugno scorso, intorno alle quattro del pomeriggio, sono venuti a prendere sei compagni milanesi. Alcuni erano al lavoro. Altri erano in casa. Oppure ci sono stati portati con l’inganno da false telefonate, che avvertivano di strane perdite d’acqua. Tutti, comunque, sono stati fermati dalla Digos con passamontagna e armi in pugno, davanti agli occhi increduli di colleghi, amici e vicini. Ad alcuni hanno addirittura sfondato la porta di casa, con un clamore immotivato. E hanno sequestrato telefoni, computer – personali e di lavoro – agende e altri effetti personali.Di qui, si è poi proceduto con le varie perquisizioni: dalle abitazioni ai luoghi di lavoro, dalla casa dei genitori fino alla casa di villeggiatura, messa letteralmente a soqquadro durante ore di ricerche con cani e metal-detector. I colleghi dei fermati, sul posto di lavoro, sono stati identificati dagli agenti senza troppe spiegazioni. Dalle abitazioni di ognuno – e dalle loro automobili – sono stati portati via volantini, manifesti, riviste, film, libri insospettabili e poesie. Anche le bollette della luce e del gas, sono state oggetto di interesse. Addirittura, lettere manoscritte indirizzate ai propri figli: tutto, incredibilmente, sotto sequestro.
Dopo le interminabili perquisizioni, la questura. Dove ai fermati è stato fatto intendere, da agenti sempre incappucciati e poco inclini all’eufemismo, che di ognuno conoscevano a memoria anche la più piccola conversazione, spostamento o telefonata degli ultimi anni. Ogni fermato ha infatti ricevuto un trattamento psicologico “personalizzato”, studiato su debolezze e informazioni acquisite durante mesi di ascolti e pedinamenti. Alcuni sono stati trattati dagli agenti con distacco, lasciati per ore in stanza da soli, in attesa di chissà cosa. Altri sono stati oggetto della simpatia e del macabro senso dell’umorismo dei Digos, dichiaratisi “compagni” e comunisti. Questi stessi agenti, mossi da un irrefrenabile desiderio di comunicare, si sono sapientemente lasciati andare a considerazioni sulla vita privata dei fermati. Anche su quella più intima. Interessanti, poi, le opinioni sui dibattiti politici e sui documenti scritti dai compagni, che i Digos avevano seguito con evidente partecipazione. Alcuni agenti, sempre schermati dal passamontagna, hanno suggerito ai fermati di guardarsi intorno con “più attenzione”, all’interno dei centri sociali e dei luoghi di confronto abituali: “la prossima volta, in XXX, ti faccio l’occhiolino, così forse mi riconosci”, hanno sussurrato a un compagno. Tutti i fermati sono stati rilasciati fra la mezzanotte e la mattina del giorno dopo. Risultato: due di loro sono ufficialmente indagati per i reati previsti dall’articolo 270 bis, ovvero associazione con finalità di eversione e terrorismo, costituita in banda armata e operante – così specifica l’avviso di garanzia – “secondo le modalità proprie delle Brigate Rosse”. Le posizioni degli altri quattro, risultano invece “da approfondire”, anche se nei fatti sono coinvolti quanto gli altri. Cosa è accaduto? Semplicemente, è scattata l’ennesima, puntuale, strumentale stretta repressiva. Oltre ai fermi di Milano, tra Roma, Sassari e Genova sono stati arrestati sei compagni: il tutto, nell’ambito di una maxi-operazione “anti-terrorismo” partita dalla Procura della Repubblica di Roma, scattata dopo due anni di indagini condotte dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti e dal sostituto, Erminio Amelio. I reati contestati, a seconda delle posizioni, sono di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo, banda armata e detenzione di armi. Sempre, naturalmente, sulla scia delle Brigate Rosse. Che addirittura – questo il teorema dei pm – rischiavano di essere “rifondate” dagli arrestati, come provato dalle intercettazioni e dalle dinamiche degli appuntamenti e degli incontri.
“Te l’aspettavi?”, ha chiesto la Digos ad uno dei compagni fermati a Milano. Il compagno ha risposto: “no”. Subito dopo, però, ha aggiunto: “anche se sono un comunista. E i comunisti queste cose dovrebbero sempre aspettarsele”. Vero. Proprio da qui, infatti, devono partire le nostre considerazioni politiche.Anzitutto, la molla della maxi-operazione non è certo scattata in un momento qualsiasi. Gli arresti e i fermi – con tutto il fragore mediatico di “veline” e conferenze stampa lanciate da questure e procura – sono partiti il giorno stesso in cui i giurati del processo “Operazione Tramonto” entravano in camera di consiglio. Mentre giornali e televisioni, con la solita servitù intellettuale, celebravano l’arresto di sei pericolosi terroristi e il fermo di brigatisti di seconda generazione, a Milano si stava decidendo della sorte di diciassette compagni. Di questi, quattordici – guarda caso – a distanza di appena due giorni hanno ricevuto una sentenza di condanna in primo grado, fino a quindici anni di carcere. Siamo noi ad essere maliziosi, oppure è stato creato, con gli arresti del 10 giugno, il terreno necessario a far scivolare dolcemente condanne così dure? E non solo le condanne. Perché – come sottolineano i familiari e tutta la rete di solidarietà strettasi intorno ai condannati – allo Stato non basta rapinare i comunisti di quindici anni di libertà. Bisogna isolarli. Allontanarli dagli affetti. Magari inviandoli in Calabria, dall’altra parte del Paese. E poi, bisogna rendere gli altri detenuti impermeabili ad ogni contagio “rivoluzionario”. Creando delle sezioni “speciali” in cui suddividere e sigillare i condannati per terrorismo ed eversione. Un inasprimento delle condizioni detentive che gli arresti del 10 giugno servono ad avallare e suggellare, secondo la logica emergenziale, punitiva e preventiva propria dello Stato borghese.Finito un processo, quindi, ne inizia un altro. Ed inizia ad un mese esatto dal G8 de L’Aquila. Il collegamento al summit non lo stiamo ipotizzando noi, ma gli stessi magistrati. Che contestano agli arrestati, fra le altre cose, di aver preparato un attentato dimostrativo proprio contro il G8 che, all’epoca delle intercettazioni, avrebbe dovuto svolgersi nell’isola della Maddalena, in Sardegna. L’obbiettivo è di intimidire e spaccare al tempo stesso il movimento, a trenta giorni dalle manifestazioni che si svolgeranno in Abruzzo. Il messaggio è chiaro: se vogliamo, quando vogliamo, possiamo venirvi a prendere e rovinare quel che ci riesce di rovinare. Il 10 giugno, infatti, l’operazione è scattata in pieno orario di lavoro. Gli arresti e i fermi sono stati effettuati in modo immotivatamente teatrale. Perché? Per mettere in pericolo i posti di ognuno. Magari non vi arrestiamo, ma quantomeno vi ritrovate disoccupati. Purtroppo, in alcuni casi ci sono riusciti.Inoltre, la Digos ha tentato – come consueto – di seminare sospetti e diffidenza tra le varie componenti del movimento: “la sera prima di ogni manifestazione, in questura si beve e si mangia assieme ai vostri leader”, hanno “confidato” gli agenti ai fermati. Come dire: non c’è manifesto o slogan che passi senza prima essere stato concordato con noi. Questa la consistenza attuale del movimento, vista con gli occhi della repressione. E proprio in quest’alveo a conflittualità “controllata”, deve essere ricondotta ogni frangia del movimento: soprattutto le più refrattarie – nella pratica – ad ogni possibilità di compromesso. Infine, l’operazione è servita anche da monito ad un certo modo di interpretare la storia del movimento e della lotta armata. In un Paese – l’Italia – in cui di lotta armata non si può parlare se non definendola “terrorismo”; in cui chi si azzarda a raccontare con onestà intellettuale la storia del movimento operaio viene boicottato e censurato; in cui nemmeno per fiction si può ipotizzare una lettura dello scontro di classe se non attraverso la lente della borghesia vincitrice, beh: in questo Paese, un libro come “La fuga in avanti”, scritto da uno dei fermati di Milano, non è altro che un’anomalia. Da occultare o, qualora ne risulti impossibile l’occultamento, da colpire senza indugio. Gli anni Settanta li può raccontare solo Mario Calabresi, insieme a tutti gli altri giornalisti e storici con la patente di legittimità rilasciata dalle istituzioni. Chi stava dall’altra parte, deve tacere. O, al massimo, parlare per chiedere scusa. Per questo “La fuga in avanti” non ha ricevuto altra pubblicità se non quella dell’11 giugno scorso, quando i principali quotidiani nazionali lo utilizzavano per parlare solo di eversione.
Ora. Dopo aver letto le nostre considerazioni, i più diranno: beh, non c’è niente di nuovo. Infatti: niente di nuovo. Quanto avvenuto è l’ennesima riconferma dei meccanismi con cui marcia la repressione. Dei gangli poliziesco-giudiziari all’interno dei quali tenta, da sempre, di incastrare e arrestare il movimento rivoluzionario. Con la collaborazione di stampa e tv. E dentro la brodaglia – indispensabile – di ignoranza e assoluta mancanza di consapevolezza in cui gran parte del proletariato galleggia. Perché il fatto che queste “maxi-operazioni” e queste sentenze politiche avvengano nel compiacimento, o – nel migliore dei casi – nell’indifferenza generale, è indicativo della quantità di passi indietro che sono stati fatti in questi anni. O di passi in avanti che bisogna fare, da oggi. Quindi, per prima cosa esprimiamo tutta la nostra solidarietà ai compagni arrestati il 10 giugno e ai condannati dalla sentenza di sabato 13. La stessa solidarietà che indirizziamo a tutti i detenuti – più e meno recenti – per reati associativi e politici. Fra questi, vogliamo ricordare in particolare gli arabi tacciati di “terrorismo” che vengono arrestati e incriminati – oggi – con le stesse modalità con cui – da sempre – lo Stato borghese arresta ed incrimina i comunisti.Poi, invitiamo tutti gli altri a non lasciarsi intimidire. A continuare nella lotta più e meglio di prima. Ricordando l’obiettivo – una società giusta, senza sfruttatori né sfruttati – e la dimensione che ogni singola esperienza di repressione vissuta, soprattutto oggi, assume al suo confronto.
SOLIDARIETA’ A TUTTI I COMPAGNI COLPITI DALLA REPRESSIONE
Collettivo San Siro

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