1954. Dopo essere stati qualche tempo ospiti in casa dei nonni e delle zie, a pochi metri da Porta Napoli, abitammo a Costa Masciarelli; una strada pedonale perché fatta tutta a gradoni che collega, prima in pendenza, poi a precipizio, piazza duomo con porta Bazzano.
La casa affacciava, sul lato opposto alla strada, su un giardino piuttosto ampio, a cui si accedeva da una porticina che era nel bagno, e nel quale mio papà aveva impiantato un orticello di cui consumavamo i prodotti.
Dall’orto, attraverso un cancello si usciva su un’altra strada in forte pendenza, via Fortebraccio: bastava attraversarla, per andare all’asilo delle suore, dove fui mandato per qualche anno, con mio sommo disappunto, nonostante mi trattassero molto bene.
Era la stessa strada che, in salita, facevo per andare alla scuola elementare “De Amicis”, qualche tempo dopo, nel 1956.
Che paura quando, il secondo giorno di scuola, essendo arrivato in ritardo (andavo nei corsi pomeridiani), mi persi in quei lunghi corridoi, senza riuscire a ritrovare la mia aula, dietro a tutte quelle porte tutte uguali e chiuse (e non sapevo ancora leggere le targhette!)….L’incubo, a volte, ancora mi scuote il sonno.
1955. Era nata la mia sorellina; quello fu uno dei più freddi inverni della storia recente dell’Aquila. Nelle strade più strette, e anche a Costa Masciarelli, erano state scavate trincee e gallerie nella neve, per far passare le persone.
Andammo ad abitare in Via delle Bone (“bone”) Novelle. Che nome poetico! Da lì erano passati, qualche secolo prima, i messaggeri che annunciavano alla città chissà quale vittoria! E la cosa era rimasta scolpita nel nome di quella strada.
La casa era vastissima, frutto della aggregazione di più appartamenti e corpi edilizi.
Molte stanze e diverse parti della casa erano inesplorate e molto paurose da frequentare. Altre avevano strambe destinazioni d’uso: nella “stanza del telefono” era stato montato solamente il telefono a muro, il primo che avevamo posseduto, numero 4842, senza alcun altro arredo. Nella “camera buia”, priva di finestre, era conservata la legna e il carbone per la cucina e le stufe. La “camera vuota“ era usata per fare qualche gioco, ma era rigorosamente vuota.
La cucina era vastissima, c’era una stufa economica a legna, col tubo dei fumi che l’attraversava, ma l’acquaio era sistemato in un grottino lì a fianco, in basso, e da lì si scendeva ancora, a una profonda, buissima e inesplorata cantina.
Al piano di sopra c’erano stanze disabitate, con qualche mobile polveroso lasciato chissà da chi. C’era una scaletta di legno che saliva al sottotetto e lì c’erano le galline che ci davano le uova.
La casa era freddissima: ricordo che passavo tutte le sere d’inverno rannicchiato su una sedia per cercare di scaldarmi le gambe. Nel letto veniva messo un “prete” di legno, una struttura a telaio di legno nella quale veniva sistemato un braciere. Oppure si andava a dormire, abbracciandosi una borsa dell’acqua calda.
Abitammo lì sino al 1960. Ricordo che in quella casa arrivò il primo televisore e vedemmo le Olimpiadi di Roma.
Io ero, ahimè, l’”ometto” di casa: questo significava dover fare un sacco di servizi domestici, specialmente acquisti alimentari e commissioni in centro città, dal momento che la mamma era impegnata con la piccola Rosa: prendere quotidianamente il latte, portando la bottiglia vuota e riportandola piena; andare al tabaccaio, alla posta, dal giornalaio.
Gran parte di queste funzioni erano localizzate nella vicina piazza del mercato detta anche piazza duomo o nelle stradine limitrofe.
Lì c’era anche una botteguccia che vendeva generi strani: le candele, lo zucchero sfuso, e il famigerato ghiaccio a colonna, il cui trasporto da lì a casa costituiva una tormentosa incombenza estiva che mi era riservata.
Durante quel periodo, cominciai a gironzolare da solo per le vie della città, fermandomi ogni volta estasiato a guardare chiese, fontane e palazzi: la leggenda cittadina vuole che ce ne siano 99; pertanto ne avevo di scoperte da fare!
S.Marciano, dove andavo al catechismo, passando per la sagrestia del severo parroco che però ci dava per merenda meravigliosi formaggini distribuiti dalla POA (lì, vicino alla piazza, c’era uno spaventoso negozietto dove una vecchia sdentata e coperta di fuliggine vendeva carbone e varechina); S.Giusta, tradizionalmente la chiesa di famiglia: i miei genitori si erano sposati lì e in seguito i miei zii, lì era stata battezzata mia sorella e altri cugini; e poi le Anime Sante, in piazza duomo; s.Bernardino, dove guardavo estasiato una statua di Cristo appesa in alto, a metà della cupola… “va’ a fini’ che casca….”, rimasto nel lessico familiare.
Sul piazzale dinanzi Collemaggio, fui portato a muovere le prime pedalate in bicicletta senza rotelline e, nonostante la sua vastità e mancanza di traffico e di ostacoli di sorta, fui capace di investire gli unici 2 passanti presenti in quel momento, apostrofandoli con un “…levatevi di mezzo!” rimasto anch’esso nel lessico familiare.
Crescendo (ormai andavo alle scuole medie in via Sassa) e nei pomeriggi d’estate, riuscii ad allungare il raggio delle mie esplorazioni, arrivando fino al Castello, e poi alla Fontana delle 99 Cannelle, a S.Domenico e a S.Pietro.
L’inverno, quando nevicava, usavo il “prete” come slitta per scivolare lungo la ripida via delle Bone Novelle.
E durante le feste Natalizie, quella grossa e fredda casa, si popolava di tutti i parenti e gli amici di famiglia, di risate e di allegria.
Poi, i proprietari, cominciarono a riprendersene diverse stanze per volta, riducendo via via gli spazi a nostra disposizione: la cucina fu spostata nella “camera vuota”, l’ingresso divenne unico (perché prima ne avevamo due, con mia grande paura!), la mia stanza da letto fu drasticamente ridimensionata.
In quegli anni costruivano un edificio avveniristico, per il tempo, utilizzando uno spazio di fronte al Grande Albergo, da sempre occupato da un giardino con grandi alberi. Era un palazzone a 5 piani (un grattacielo, per l’epoca) con pilastri e travi in cemento a vista, colorati di azzurro (fatto inusitato!) e rivestimento esterno di mattoni a cortina. L’accesso avveniva da un lato e non sul fronte principale del palazzo, attraverso un camminamento a galleria. Il porticato sottostante era occupato da una stazione di servizio (altro fatto inusitato!); fu montata, sulla facciata principale, una grossa insegna luminosa gialla e blu e , da quel momento, quella costruzione fu, per l’intera città, “il palazzo dell’AGIP”.
Ne occupammo, negli anni ’60 e fino al nostro trasferimento, 2 degli appartamenti: prima uno piccolino al 3° piano e poi uno più ampio, al secondo. Lì ebbi una camera tutta per me, minuscola (visto che si trattava della “stanza della donna”), ma con un bagnetto interno!
Furono gli anni dello sci domenicale, del tennis estivo, del liceo, dei portici e della colonna (la seconda a destra, dopo via Sallustio), delle cotte e delle feste da ballo, degli scout, e delle altre esplorazioni.
E dal palazzo dell’Agip, il 30 di un settembre (l’Equipe 84 furoreggiava da tutti i jukebox con la sua “29 settembre”!) , partii mogio mogio per Perugia: il giorno dopo, 1° ottobre, cominciava un’altra scuola!...
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