7 lug 2009

L’esodo aquilano e le casette antisimiche piovute dal cielo di Antonio Gasbarrini

Chissà se durante il G8 a Coppito, sarà donata al Capo del Governo italiano la Cronica rimata [della città dell’Aquila, dalla sua fondazione del 1254 al 1362]) di Buccio di Ranallo, nato nella città federiciana sul finire del Duecento da genitori provenienti proprio da Poppetlum.
L’auspicata lettura gli consentirebbe di conoscere ex post tutta la fierezza del popolo aquilano che nonostante fosse stato più volte sterminato da carestie, pesti, terremoti e guerre fratricide – descritte con viva partecipazione dall’epico cantore – aveva sempre saputo rialzare la testa per guardare nuovamente in avanti. Buccio è stato, tra l’altro, testimone oculare del terremoto che nel 1349 distrusse la città e fece contare 800 morti: “Corria li annjs Dominj annj mille trecento / e più quaranta nove, credete ca no mento, / quanno fo lu terramuto / e questo desertamento; / e quillj che moreroci, Dio li abia a salvamento”. La sua descrizione del “desertamento” della città, evoca in modo impressionante tutto il pathos che sei secoli e mezzo dopo sarebbe scaturito dalla tragedia del 6 aprile: “Quanno le case cadero / fo tanta polverina, / no vidia l’uno l’altro quella matina; / multi ne abe a ucidere senza male de ruina: / ben se llj de’ conuscere la potenzia divina”.Castigo divino per antonomasia, il terremoto di quel 1349 durò poco più di 9 settimane (mentre ben 12 ne sono già trascorse dalle 3 e 32 di quella stramaledettissima notte) e fu affrontato con l’intelligenza dovuta: “No iacevamo in case ma le logie facemmo, / più de nove semmane pur da fore iacemmo; / più friddu assai che caldo / in quillo tempo avemmo / e de nostri peccatj pochi ne penetemmo”.

Di peccati da scontare, per i circa 35.000 aquilani “ricoverati” nei momenti di punta dell’esodo nelle tendopoli e per gli altrettanti ospitati negli alberghi della costa, ne devono essere ancora molti, se a tre mesi da quel feroce inizio le scosse continuano a superare i limiti di guardia della scala Richter (intorno ai 4 gradi, mentre stiamo scrivendo). I clamorosi ritardi nel puntellamento delle migliaia di edifici seriamente compromessi, hanno aggravato, e di molto, la precaria situazione di “tenuta urbana” dell’intera città, che rischierà di diventare esplosiva con i primi freddi delle gelide ottobrate aquilane.
Sempre per il Capo del Governo non sarebbe inutile la lettura di un altro cronista aquilano, Francesco d’Angeluccio di Bazzano, il quale nelle Cronache delle cose dell’Aquila descrive con vivido realismo le varie scosse dell’altro terremoto abbattutosi sulla città poco più di un secolo dopo, mettendo però in evidenza lo strettissimo rapporto di causa ed effetto tra la distruzione parziale delle abitazioni nelle prime scosse e quella definitiva: “E a di 17 de Dicembre 1461, a ore 8 de nocte, revenne uno terramuto bono granne che tutcte le persone, ch’erano rannate a casa retornarono a fare le logie (baracche, n.d.a), come aviano facte da prima. E cascarono paricchie case da quelle ch’erano contaminate (lesionate, n.d.a) dallu primu terramuto e lle persone tutte stanno con gran paura”.Il terremoto, iniziato il 27 novembre terminerà ai primi di gennaio, dopo di che “tucti li omini sono retornati ad avetare (abitare, n.d.a) in le loro case”.

Mentre gli aquilani dei tempi di Buccio di Ranallo e di Francesco d’Angeluccio di Bazzano, poterono rientrare in una città che sarà ricostruita più bella e più ampia di prima (città poi nuovamente distrutta nel terremoto del 1703, ma ostinatamente riedificata), gli attuali discendenti dimoranti nelle tendopoli e negli alberghi, conoscono una sola parte del loro ingrato destino: in circa 13.000 saranno “dispersi”, entro la fine dell’anno, nella ventina (?) di insediamenti delle casette antisismiche posizionate circolarmente rispetto al capoluogo, con distanze diametrali di circa 40 chilometri; un altro buon numero (ad esser ottimisti, facciamo 20.000?) dovrebbe rientrare prevalentemente nella parte periferica della città nelle case dichiarate agibili o tali con piccoli lavori di reintegro (classe A, B, C).
Al nostro appello mancano circa 37.000 persone (i cui nuclei familiari abitavano in costruzioni classificate D, bisognose cioè di consistenti interventi di ristrutturazione, ed E, da demolire): che fine faranno?
Tra quanti anni potranno rientrare nelle loro abitazioni? E, se la pessima legge appena approvata non sarà integrata con una successiva che preveda il rimborso dei costi sostenuti per la ristrutturazione o ricostruzione anche per le seconde case al 100 % (vale a dire circa il 30-40 % degli edifici del centro storico), non è prevedibile il loro definitivo abbandono data l’insostenibilità delle spese da affrontare per le migliaia e migliaia di cittadini che hanno perso pure il lavoro o sono sotto cassa integrazione guadagni?
Quanti Istituti finanziari (o peggio, clan mafiosi), stanno dietro l’angolo in attesa di accaparrarsi in tutto o in parte, ed a prezzi stracciati, questo o quell’edificio del centro storico?
Se questi sono, come sono, gli irrisolti problemi reali che saranno presto sbattuti in faccia a tutti i propagandisti dell’ottimismo di maniera (Capo del Governo e Capo della Protezione Civile, in particolare), cosa sta nel frattempo succedendo all’intera conca aquilana ed al suo impareggiabile paesaggio naturale ed urbanistico, ora costeggiato da macerie su macerie, con l’affrettata e frettolosa scelta verticistica di queste casette antisismiche in cemento (vita media prevista, circa cinquant’anni) subentrate, da un giorno all’altro, all’ipotesi iniziale di “meno invasive” casette lignee?
La descrizione dell’altro terribile terremoto del 1703 (con migliaia di morti), da parte dello storico Antinori, ci aiuta a capire – in uno dei passi salienti – come fu impossibile, all’epoca, ricostruire fedelmente la città distrutta, riedificata prevalentemente con le macerie, e perciò meno bella e grande: “Dopo questo orrido disastro, la città nuovamente ricostruita non poté rappresentare più l’antica. La fisionomia dell’Aquila fu cambiata, le sue alte torri o scomparse o ricostruite più basse, i suoi grandi palazzi o scomparsi anch’essi o riedificati più piccoli e con moderna architettura. Questa città bisogna immaginarsela ricostruendola con la fantasia coi pochi avanzi di quella distrutta”.
In effetti confrontando visivamente questa descrizione della città ricostruita ex novo nei primi del Settecento (vale a dire L’Aquila che avevamo conosciuta, ammirata ed amata fino al 5 aprile) con la città analiticamente dipinta con tutte le sue chiese, piazze, fontane, palazzi, mura di cinta e porte da Paolo Cardone nel Gonfalone (1572) fortunosamente e fortunatamente recuperato dalle recenti macerie del Castello Cinquecentesco, si può percepire abbastanza bene “la riduzione di scala” urbana subita.
Riduzione implicita nella confusa, caotica frantumazione paesagistico-architettonica in atto, che mentre svuota scientemente per vari anni la città capoluogo di circa il 20% dei suoi abitanti, non ha ancora messo in sicurezza con gli indispensabili puntellamenti migliaia e migliaia di palazzi, palazzetti e case di civile abitazione in via di disgregazione definitiva da parte di un sisma che non conosce la parola fine.
E dire che gli statuti medioevali della città vietavano con molta lungimiranza la costruzione di case fuori le mura, come ricorda puntualmente l’architetto matematico Pico-Fonticulano nella sua cinquecentina Descittione di sette città illustri d’Italia:“Non ha palazzi attorno, perciò che per un statuto fatto a tempo delle discordie e nemicitie civili, si vieta agli aquilani il quivi habitar con le famiglie”. Invece ora, per una perversa, vendicatrice Nemesi, il nucleo più consistente (e perciò la maggior quantità di colate di cemento) di queste casette antisismiche costruite tutte extra moenia, sta spuntando alla stregua di funghi apparentemente mangiabili per i senzatetto terremotati, funghi di fatto avvelenanti il futuro delle giovani generazioni, proprio a Bazzano, la terra del nostro cronista Francesco D’Angeluccio.
Chi, come e perché ha deciso, in spregio a qualsiasi forma di partecipazione democratica nella gestione del territorio (cittadini ed enti locali) : “queste casette qui, quelle altre là, anzi no, queste sono state “asinisticamente” posizionate sulla faglia, quindi è meglio spostarle più in là”? “Forse è meglio rinunciare ad edificare alcune centinaia di moduli abitativi; un paio di migliaia di terremotati li sistemeremo nella cittadella della Guardia di Finanza: quale onore per anonimi ospiti delle tendopoli, alloggiare nelle stesse stanze utilizzate per il G8, dove hanno dormito Capi di Governo, first ladies, guardie del corpo, qualificate delegazioni di Stati esteri e la crema della crema dei giornalisti di mezzo mondo!”. Si chiedeva Ignazio Silone, per di più in tedesco mentre era esiliato in Svizzera dove avrebbe pubblicato Der Faschismus nei primi anni Trenta: “Il fascismo è piovuto dal cielo?”. La stessa domanda retorica si potrebbe porre al Capo del Governo italiano: “Le casette antisismiche disseminate a casaccio al di fuori della cinta muraria della città e delle sua più immediata periferia, sono forse venute dal cielo?”. Di casette piovute dal cielo si conosce un solo esempio: la Santa Casa di Nazaret a Loreto, nelle Marche, meglio conosciuta come “casa della Madonna”, trasportata (secondo la tradizione popolare) in volo dagli angeli. Quelle pietre, è bene svelarlo subito, provenivano proprio da Nazaret. Ma c’è un particolare: erano state trafugate via mare, sul finire del Duecento, dai crociati. Per i credenti ed i fedeli, i miracoli non possono essere messi in dubbio. Per i 10-13.000 aquilani che si troveranno di fronte al ricatto “o prendere la casetta o in mezzo alla strada”, riflettere sul futuro immediato (che non c’è) della loro fantasmatica città, non è un semplice dubbio amletico, ma un preciso dovere civico. Dulcis in fundo: per gli altri 57.000 aquilani scomparsi dai mass-media e dalle ingannatrice versione miracolistica di un dopo-terremoto tutto rose e fiori, le mancanti casette che dovrebbero piovere ancora dal cielo, dove atterreranno? Si risponde con sicumera: per una buona parte non serviranno proprio (grazie al veloce recupero delle case dichiarate agibili o quasi). E per le decine di migliaia di aquilani senza più casa, né arte né parte, dimoranti per lo più negli alberghi, quale prospettiva esistenziale resta aperta? La nostra cruda e crudele risposta è, al momento, quella della praticabilità di una sola Uscita di Sicurezza (per dirla sempre con Silone): la migrazione stanziale in altri lidi meno opprimenti dell’attuale non-Aquila militarizzata. Ma, come dire “ciao” e non “addio” a L’Aquila bella mé? In un sol modo: prendendo, come cittadini, “proprietari condominiali” della loro struggente città, la giusta Distanza di sicurezza (è il titolo di un bel libro del filosofo Slavoj Žižek) dalle pinocchiesche manipolazioni mass-mediatiche in atto. Perciò, la smetta il Governo, una volta per tutte, di prendere in giro gli aquilani con il gratta e vinci o con il G8, e con parole chiare dirette a tutti i contribuenti, istituisca una imposta di solidarietà nazionale restituibile (se necessario) con le entrate aggiuntive scaturite da una pervicace lotta all’evasione fiscale. Se così sarà, la rinascita di una delle più belle città d’Europa – Sua Maestà il Terremoto permettendo – è più che garantita.* Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana

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