29 lug 2009

le case raccontano


Ricostruire una città devastata da un terremoto ai tempi di Berlusconi non è cosa facile, come non è facile far capire agli italiani cosa stia realmente accadendo in questo territorio terremotato. Il quadro che tutti fuori dall’Aquila si sono fatti di questo evento e della ricostruzione avviata è tanto chiaro quanto sconcertante: “c’è stata tanta solidarietà da parte di tutti, non potete lamentarvi” – si sente dire da chi non conosce la realtà – “le tendopoli sono campeggi a cinque stelle”, “il presidente del Consiglio ci tiene a voi, è sempre all’Aquila”, “ho visto i disegni del piano case, sono palazzine bellissime e poi in alcuni paesini si stanno facendo già villette di legno” e il più bello di tutti “siamo in crisi, non ci sono i soldi per rifare tutto come prima, dovete accontentarvi”.

È da questo che devi partire quando vuoi spiegare la vita che ti sei ritrovato a condurre dopo che per 40 secondi eri tu l’unica cosa ferma in un mondo che ti ballava intorno. A volte l’impressione è che gli altri conoscano meglio di te quello che tu stai vivendo. Poi invece parli con chi ha vissuto quel momento guardandolo negli occhi, vedi le case e i monumenti sventrati, senti la terra che ancora trema proprio quando avevi abbassato un attimo la guardia e capisci che fare qualcosa per la tua gente, per la tua terra, è l’unico modo che hai per sentirti ancora vivo e parte di qualcosa. Urlare le ingiustizie che tutti gli aquilani stanno subendo è l’unica via che hai per sperare di avere un futuro in un territorio che rischia di avere per sempre solo un passato. La battaglia che i comitati cittadini hanno deciso di combattere non è una battaglia politica tesa a screditare il Governo e magari gettare fango sul suo operato, ma è una lotta per difendere il territorio da una speculazione già iniziata, un tentativo di evitare quell’invivibile sensazione di non sentirti più figlio della tua terra e delle sue montagne; è una battaglia di diritti. La ricostruzione dell’Aquila infatti è una faccenda puramente aquilana, nel senso che solo chi vive un territorio sa qual è l’investimento migliore che su quello stesso territorio si può realizzare. È un concetto questo che va al di là delle competenze necessarie, anche se la speranza è che vengano riconosciute quelle locali. Questo è il motivo per cui i comitati cittadini nati dopo il sisma chiedono la partecipazione di tutti i cittadini aquilani per ogni singola decisione che viene presa sulla loro pelle. Gli aquilani invece, si ritrovano davanti a scelte già prese dall’alto: cemento armato dove prima era campagna, tasse da pagare a soli 6 mesi dal terremoto, il dover decidere, per chi aveva più di una casa quale riparare o la seria possibilità di restare senza un tetto per chi prima viveva in affitto. Finora le uniche cose che agli aquilani era concesso fare era dire che “va bene così”, “che non c’era altra via” oppure rientrare nella propria tenda a bestemmiare contro il mondo, a chiedersi perchè questo terremoto abbia colpito proprio loro e non qualcun altro, inteso in altro tempo o in altro luogo. Quello che i cittadini non aquilani devono fare, è riconoscere il diritto che tutti gli italiani hanno ad una abitazione dignitosa, al lavoro e all’autodeterminazione della propria vita; in altre parole il diritto che tutti hanno a condurre una vita felice. È verso queste considerazioni che bisogna spostare l’attenzione se non si vuole cadere nel gioco politico della propaganda e della contestazione. Solo così viene alla luce che le palazzine che si stanno realizzando secondo il piano C.A.S.E., che sembrano così necessarie quando l’unica alternativa che ci hanno proposto è quella di passare il gelido inverno aquilano nelle tende, è solo un espediente per far ripartire l’industria del cemento armato delle aziende del nord Italia e cercare così di uscire dalla crisi economica. Una scelta che porterà alla creazione di nuove periferie, molto lontane dalla città, senza servizi e senza legame con il territorio, con il serio rischio della perdita di identità per i cittadini, una volta aquilani, deportati chissà dove in una provincia fatta di piccoli mondi chiusi piuttosto che di paesi. Non si sono spenti i riflettori sulla città dopo il G8, come temevano le istituzioni locali, e non si spegneranno a lungo, anche se la luce che mandano illumina un esempio di efficienza e non la gigantesca speculazione edilizia che sta devastando l’aquilano. Spesso ho sentito dire “ah se questa casa potesse parlare ne avrebbe di cose da raccontare…”, beh vi dico una cosa, adesso le case dell’Aquila e dei paesi tutt’intorno parlano, ma quello che raccontano non è affatto una bella storia.
Marco Sebastiani, 3e32

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