Un'opportunità per l'economia dei beni comuni
di Stefano Corazza, da eddyburg, 26.04.2012
Bisogna porre riparo alla grave sciocchezza di vendere il demanio rurale invece di utilizzarlo per migliorare la vita di tutti e la stessa economia. Scritto per eddyburg, 26 aprile 2012
Un gran numero di Associazioni, Onlus, collettivi, cooperative etc. comprendenti da AIAB a Campi Aperti, da Crocevia a Civiltà Contadina, da Libera a Slow Food, hanno con manifestazioni, presidi, lettere alle commissioni parlamentari, preso posizione sulla vendita dei terreni agricoli demaniali che il Governo Monti ha di recente approvato (Decreto1/2012). La norma che la prevede è contenuta nel cosiddetto “decreto liberalizzazioni” (all'art.66) che specifica e in qualche misura aggrava quanto già previsto dalla legge del 12 novembre 2011.
In alternativa alla vendita dei terreni “agricoli o a vocazione agricola” demaniali, auspicata anche da CIA e Coldiretti, gli oppositori proponevano la concessione in affitto a equo canone, con priorità ai giovani agricoltori per:
- contrastare ai processi di ulteriore concentrazione della terra agricola nelle mani di un sempre minore numero di aziende di grandi dimensioni (un “landgrabbing” a scala nazionale) con conseguente drastica riduzione delle piccole proprietà contadine considerate più virtuose quanto a distribuzione dei redditi e cura della terra;
- l'esclusione di occasioni e facilitazioni per il riciclaggio, nell'acquisto della terra, di risorse finanziarie originate da attività criminali;
- l'esclusione di opportunità per speculazioni immobiliari possibili con l'ottenimento di cambi di destinazione d'uso dei terreni alienati.
L’iniziativa, pur non avendo ottenuto alcun esito, ha avuto il merito di porre sulla questione ipotesi diverse certamente più interessanti e con prospettive meno limitate del far cassa vendendo un bene demaniale, ma forse questa occasione costituisce una opportunità per affermare e iniziare a praticare, attraverso un progetto mirato, un paradigma economico-sociale e politico davvero alternativo centrato sul lavoro, la biodiversità e i servizi ecosistemici, la terra e i suoi prodotti come bene comune, la solidarietà, la condivisione.
Il progetto
Secondo l'Agenzia del Demanio, che utilizza dati del Censimento per l'Agricoltura 2010, l'estensione dei terreni agricoli demaniali sarebbe di oltre 338.000 ha. per un valore che oscilla fra 5 e 6 miliardi di Euro ma è facile prevedere, anche sulla base di passate esperienze di vendita di beni pubblici immobiliari che, un po' per la scarsa capacità di vendita da parte degli enti pubblici, un po' perchè a fronte di una tale ampia offerta i prezzi scenderanno, un po' perchè sono sempre in agguato meccanismi clientelari e abusi, l'ammontare complessivo di introiti derivanti dalla svendita potrebbe essere di molto inferiore alle previsioni.
Dove si trovano questi terreni? In quasi tutte le regioni; dal Piemonte (56000 ha) al Lazio (41000 ha), dalla provincia autonoma di Trento (30000 ha) a quella di Bolzano alla Lombardia e Basilicata (oltre 20000 ha). Oltre i 10000 ha sono anche in: Calabria, Toscana, Campania, Veneto, Marche, Puglia, Molise e Sardegna. Una distribuzione piuttosto uniforme tra Nord Centro e Sud del Paese tale da rendere equa, in senso geografico anche una distribuzione dei benefici possibili con un progetto nazionale per affrontare le decisive implicazioni che la questione della terra riveste per il Paese e il suo futuro “possibile”.
Le questioni connesse alla vendita di questo patrimonio pubblico vanno infatti ben oltre le pur rilevanti criticità presenti nel settore agricolo da diverse parti evidenziate ed investono temi quali la conservazione del suolo, del paesaggio e della biodiversità, la qualità del lavoro, le relazioni sociali.
Intanto è certo che anche la semplice cessione in affitto dei terreni demaniali non risolverà comunque il problema dell'accesso al credito del settore che vede, soprattutto i piccoli e i giovani agricoltori dover contare solo sulle proprie limitate risorse, strozzati come sono da banche sempre più avare. Altrettanto certo è che le piccole aziende che riuscissero ad ottenere la terra, in proprietà o anche in affitto, continuerebbero ad essere escluse dall'enorme torta degli aiuti comunitari all'agricoltura che viene distribuita soprattutto a grandi aziende o consorzi di trasformazione e commercializzazione del prodotto agricolo (spesso per riconversioni che riducono i posti di lavoro) lasciando meno che briciole ai piccoli agricoltori.
E' ancora altrettanto certo che cedere semplicemente in affitto i terreni non inciderà minimamente sul problema della distorsione della filiera di distribuzione e commercializzazione dei prodotti agricoli che: strozza i produttori pagando il prodotto al di sotto dei costi di produzione; spreca energia nella conservazione del prodotto e nel suo trasporto; distrugge grandi quantità di prodotto come eccedenza; banalizza la qualità aprendo le porte a prodotti di importazione, spesso di basso valore qualitativo e alimentare, realizzati a basso costo con sfruttamento del lavoro. Pesa, infine, in termini di costi, su un consumatore reso incapace /di o indifferente/a valutare: qualità del prodotto e del processo produttivo in senso allargato esteso cioè a fattori normalmente trascurati quali la qualità del lavoro, dell'ambiente fisico e biologico; le caratteristiche genetiche, biologiche, nutrizionali, organolettiche del prodotto; il sistema delle relazioni del territorio in cui avviene la produzione.
Il progetto a cui penso segue invece il sentiero tracciato negli ultimi anni da esperienze diverse che cominciano oggi a connettersi in reti sempre più estese e diffuse e che consentono di vedere già realizzato nella pratica un modo di produrre e consumare salvaguardando un futuro possibile per chi vive oggi, per i nostri figli e per il pianeta. Parlo dei produttori agricoli biologici e biodinamici, dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), delle esperienze di Libera nella gestione dei terreni sottratti alle mafie, degli agricoltori custodi della biodiversità agricola, dei mercati di prossimità e “a km0”, dei mercatini aziendali autogestiti dai produttori. Ognuna di queste esperienze fornisce materiale su cui costruire un progetto che in modo sistemico promuova la qualità del lavoro contadino, sia nel senso di renderlo ricco di saperi e “saper fare”, che riportandolo al centro di un sistema di relazione con le comunità del territorio riconoscendolo non soltanto per la qualità di ciò che produce per l'alimentazione e il consumo, ma per ciò che produce come conservazione di servizi goduti da tutti (i servizi ecosistemici) ed essenziali quanto il cibo per il nostro benessere. E così ricostruisca su una base territoriale identificata dalla dimensione di comunità umane partecipi e solidali, il rapporto città-campagna come sistema relazionale in grado di produrre qualità ambientale, salute fisica e mentale, valori etici, estetici ed in ultima analisi economici.
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