Il lavoro secondo la decrescita
La terza Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità
ambientale e l’equità sociale che si terrà a Venezia dal 19 al 23
settembre (www.venezia2012.it) si sta velocemente avvicinando. Essa si svolgerà lungo tre assi tematici: commons, democracy e work.
Sui primi due la combinazione con i principi della decrescita è
abbastanza facile da immaginare: la decrescita è prima di tutto
riconoscimento del valore non monetario dei sistemi ecologici e
l’auspicio di una loro gestione responsabile, condivisa, partecipata.
Sul lavoro e, più precisamente, su come riuscire a ridurre l’impiego di
lavoro comunque retribuito senza abbassare le disponibilità monetarie
percepite dai lavoratori (lavorare tutti e meno e continuare a
guadagnare lo stesso) è un problema più complicato e non di immediata
comprensione se si rimane nella logiche del mercato. Come scriveva André
Gorz è necessario “immaginare come vivere meglio consumando e lavorando
meno e altrimenti”.
L’attacco più pesante che i critici lanciano all’idea della
decrescita riguarda proprio il nodo dell’occupazione. Nel mondo
contemporaneo il lavoro retribuito continua ad essere una necessità
impellente per miliardi di esseri umani. Disinteressarsene sarebbe un
po’ snobistico oltre che crudele. Più in generale l’etica del lavoro
ci ha insegnato che serve “sudare” per guadagnarsi da vivere. Una
condanna biblica, quasi come lo è per le donne il “partorire con
dolore”.
Da queste premesse, nel concetto di lavoro, nel tempo, si sono fatte
strada delle separazioni tra varie tipologie di lavoro. Tra arbeit e werke,
tra lavoro libero/creativo e lavoro necessitato/subalterno, tra lavoro
manuale e lavoro intellettuale, tra lavoro produttivo e riproduttivo,
tra lavoro strutturato e lavoro informale. Fino a giungere ai giorni
nostri, dominati dalla “razionalità economica”, in cui per lavoro si
intendono solo ed esclusivamente quelle attività capaci di ricevere del
reddito. Peccato che in questo modo l’economia e la sua ancella, la
politica, abbiano finito per disconoscere tutte quelle attività “fuori
mercato” che pure ci permettono di vivere: il lavoro domestico, di
assistenza e di cura gratuita (per esempio, il 59% delle ore impiegate
dalle persone in Germania rientrano in questa categoria), il lavoro
dedicato all’autoproduzione di beni e servizi utili a sé, donati o
scambiati con altri senza il ricorso a mezzi monetari, le attività
dedicate alle relazioni comunitarie (volontariato, impegno civile,
ecc.), il tempo impegnato alla formazione e all’aggiornamento personale,
tutte le attività che si svolgono nel mare immenso dell’economia
informale, specie nei vari Sud del mondo.
Il primo passo che dovremmo compiere, allora, è attribuire valore e dignità a tutti i lavori.
L’economista gandhiano Joseph C.Kumarappa (Economia della permanenza,
in: “Quaderni di Satyagrah”, 2012) affermava che nel lavoro vi sono due
componenti inseparabili: l’elemento creativo e quello della fatica e
del disagio. “La routine e il piacere si devono alternare, altrimenti la
routine diventa fatica e il divertimento ozio (…) Il corpo umano ha
bisogno di faticare. Un lavoro completo dà al nostro corpo energia e
salute, come fa del resto una alimentazione equilibrata”. Questo
equilibrio viene rotto quando interviene la violenza della divisione del
lavoro. Allora gli “astuti” tentano di acquisire il maggiore guadagno
con minore sforzo obbligando altri a lavorare per loro. Un’altra
divisione del lavoro che va superata è quella sessuata, che costringe le
donne in una condizione di sottomissione patriarcale.
Insomma non si tratta solo di distribuire meglio quel (poco, in
Occidente) lavoro retribuito che l’economia di mercato è capace di
offrire, ma di riconoscere, rivalutare, ricomprendere, restituire
dignità a tutte le attività umane socialmente utili. Questo, in fondo, è
il significato più vero del “basic income”, del reddito d’esistenza o
di cittadinanza visto come ridistribuzione della ricchezza socialmente
prodotta sulla base non di principi di efficienza e di produttività dei
capitali investiti, ma del riconoscimento del contributo di ciascun
membro della famiglia umana al mantenimento e alla riproduzione della
vita. Un altro modo per dire che il lavoro, l’energia psicofisica umana,
è un bene comune, esattamente come lo è l’energia solare e quella
generata dagli ecosytem service. La mercificazione del lavoro è una forma – forse la più odiosa e paradossale – di enclousures,
di privatizzazione, di esproprio e di degradazione. Decrescita allora
significa non solo demercificazione, ma anche disalienazione del lavoro.
Un percorso di decrescita non può quindi prescindere dal seguire una
traiettoria di liberazione del lavoro dal giogo che lo tiene subalterno
alle logiche mercantili. In altre parole la discussione sulla qualità e
sul senso del lavoro (moltissime idee e indicazioni possono venire da: Il lavoro come questione di senso,
curato da Francesco Totaro per la Edizioni Universitarie di Macerata)
deve essere prioritaria rispetto alla pura logica della ricerca dei modi
per sua moltiplicazione quantitativa.
Il primo passo, quindi, nella direzione della “piena occupazione”, è
riconoscere e condividere equamente il lavoro nella sua interezza e
completezza. Per attribuire al lavoro importanza, dignità e
riconoscimento sociale è necessario restituirgli un significato alto e
condiviso. Friedrich Schumacher (Piccolo è bello, nuova
edizione a cura di Slow Food) affermava che la funzione del lavoro è
triplice: “dare all’uomo una opportunità di utilizzare e sviluppare le
sue facoltà; metterlo nelle condizioni di superare il suo egoismo
unendosi ad altri in un’impresa comune; infine, produrre i beni e i
servizi necessari a un’esistenza degna”.
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