23 set 2011

la (ri)conversione ecologica


 
di MARIO AGOSTINELLI
Quato articolo è stato pubblicato dal numero di settembre della rivista Inchiesta.
Introduzione
Il concetto di conversione  richiama la categoria del comportamento e le convinzioni essenziali a cui si ispira  la coscienza individuale e/o sociale. E’ parola a dimensione prevalentemente etica, che riguarda innanzitutto la sfera personale e indica, anche metaforicamente, il percorso cosciente di un cammino altro da quello precedentemente compiuto. Quando invece parliamo di riconversione e la associamo, come in genere accade, alla produzione di merci o servizi, indichiamo per lo più  una decisione presa nella sfera economica – e talvolta politica -  per destinare a nuove finalità delle attività ritenute in qualche modo esaurite, o non più “convenienti”, o, addirittura, non più compatibili con l’evoluzione della situazione di cui hanno fatto parte.
In effetti, queste definizioni sono fornite qui in forma  approssimativa, ma mi servono per fornire la “cifra”  della crisi più profonda e più complessa che la modernità abbia fin qui affrontato. Davanti alla minaccia di sopravvivenza della biosfera , alla crisi autentica di civiltà e all’incapacità di alimentare il meccanismo di crescita sviluppato e portato al parossismo dalla dittatura di un potere finanziario avverso alla democrazia, conversione e riconversione avvicinano i loro campi di azione: nel dibattito in corso tutti convengono che non sarebbe possibile una efficace alternativa economica e politica al meccanismo economico distruttivo in atto senza una profonda revisione dei comportamenti, del rapporto uomo-natura, della finalità sociale, “extraeconomica” del lavoro.
La  “conversione ecologica”, che ho avuto l’occasione di apprendere da  Alex Langer quando già era in corso la mia esperienza sindacale, comunicando così lungo un crinale che allora sembrava dover mantenere separati due mondi,  oggi rimanda obbligatoriamente sia alla dimensione personale e soggettiva delle trasformazioni proposte, sia alla loro dimensione oggettiva e sociale (dai nuovi prodotti, ai nuovi rapporti di mercato e di cooperazione, alla nuova organizzazione del lavoro).
E, a sua volta, la riconversione produttiva non può più prescindere dalla sua desiderabilità sociale e ambientale. Lungo questo percorso, è stato soprattutto Wolfgang Sachs  negli anni ’90 a chiarire come giustizia sociale e giustizia ambientale dovessero ricongiungersi inevitabilmente. E a dieci anni da Porto Alegre e da Genova, il movimento può ormai far propria una lettura organica delle ragioni della crisi in corso e della sua irreversibilità, che riguardano una serie di rotture e conflitti oltre quello tradizionale-  pur sempre determinante – tra capitale e lavoro e che hanno ormai conquistato la parte più avanzata delle organizzazioni dei lavoratori.
Per l’ambito che riguarda queste note, ciò comporta di riportare, tanto in sede locale e nazionale, quanto in campo continentale e planetario, il sistema produttivo entro un quadro di sostenibilità imposto dai limiti fisici e biologici del pianeta in cui viviamo, salvaguardando, potenziando e qualificando l’occupazione e valorizzando la dotazione di tecnologia, di impianti e di conoscenze dell’apparato industriale e produttivo esistente, fino a farne il punto di partenza di una riconversione votata sì alla discontinuità, ma gestita democraticamente.
Si può finalmente aprire un dibattito nel Paese sulla mancanza di una politica industriale e sul declino del nostro sistema produttivo, che riproduce condizioni di lavoro dequalificate, perde posizioni nella competitività internazionale, è fonte primaria di una precarizzazione che investe l’intera esistenza e alimenta un sistema di consumi e uno spreco di risorse naturali che pregiudicano la salute e le possibilità di vita delle prossime generazioni. Si può partire da una coscienza individuale diffusa che percepisce il cambiamento in modo diverso dal passato e non più progressivo e che esige perciò valori e priorità da ridefinire. Si può tener conto di come il territorio, all’esperienza lavorativa, sia fonte di constatazione dell’inadeguatezza di una crescita che non redistribuisce ricchezza e spreca lavoro e natura. Si può, infine, considerare l’attuale sconfitta del sindacato come la perdita di rappresentanza e di potere all’interno di un conflitto a cui la politica, aderendo in blocco all’ideologia neoliberista, non riconosce più centralità. Ma proprio riconnettendo individui, produzione, territorio e organizzazione, si può prendere atto della crisi dell’attuale modello di sviluppo e dei danni sociali e ambientali da riparare, per suggerire come percorso di lotta indispensabile quello di una diffusa riconversione industriale e di una nuova organizzazione del modo di vivere e di consumare nel territorio.
Una proposta in tal senso può trovare così un punto di iniziale agglutinazione nel lavoro di elaborazione intorno all’obiettivo della riconversione dell’apparato produttivo: a livello sia locale – soprattutto nei punti di maggior crisi occupazionale – che regionale, nazionale e planetario (agire localmente, ma pensare globalmente). Riguarda sia il fronte del lavoro e della produzione che quello del consumo e della distribuzione, oltreché, ovviamente, quello di una cultura condivisa che tenga tutto insieme.  Ha poi il vantaggio di mettere alla prova o di far maturare le conoscenze che ogni gruppo ha del proprio territorio di riferimento e di chi ci vive e ci lavora e offre il vantaggio – e il rischio – di mettere a confronto i saperi acquisiti con le urgenze del mondo del lavoro – le fabbriche che chiudono, o che chiedono di sopravvivere sussidiando produzioni insostenibili,  il mondo dell’impresa,  quello del terzo settore, ma anche il mondo agricolo e della piccola distribuzione – e le amministrazioni locali.
Se si riflette sulla molteplicità di lotte in corso, saperi tecnico scientifici, conoscenze del territorio e buone pratiche sono già il punto di forza delle esperienze di autorganizzazione più rilevanti degli ultimi anni: sia nei confronti di esperienze passate (per esempio nei confronti del ’68),  sia nei confronti degli avversari con cui ci si confronta oggi. Valga per tutti l’esempio della Valle di Susa: ma così è un po’ in tutti i campi (energia, trasporto, agricoltura, alimentazione, urbanistica, educazione, gestione rifiuti, mobilità, salute). Di conseguenza, sulla valorizzazione di saperi, conoscenze e buone pratiche e sull’innesco diretto con le rivendicazioni territoriali e del mondo del lavoro può essere a mio avviso costituito un patrimonio comune e condiviso da tutte le aggregazioni impegnate nella costruzione di una alternativa radicale al pensiero unico e al sistema liberista.
Dopo i referendum
Interpreto la straordinaria vittoria ai referendum di giugno (tutti e 4 insieme!) come un esplicito richiamo alla supremazia della vita sull’economia, nella specifica riscoperta e valorizzazione  dei  cicli vitali sul territorio per acqua, sole, terra e aria e come un inedito privilegio riconosciuto alle leggi della natura rispetto a quelle dominanti dell’economia. La questione energetica, dentro il nostro ragionamento, assume allora un’importanza cruciale, dato che l’abbandono del nucleare prevede un passaggio accelerato da sistemi centralizzati ed extraterritoriali, propri dell’era fossile, a sistemi decentrati, alimentati da fonti rinnovabili e integrati e programmati   nel complesso delle risorse territoriali, anche per i loro riflessi sullo sviluppo dell’occupazione, oltre che per gli effetti sulla salubrità della produzione e sulla riduzione del consumo.
Vengono così portate in primo piano le ragioni di un modello che prende ad imitazione la natura, che si riappropria del tempo, che applica la parola tagli agli sprechi, anzichè ai bisogni e ai diritti e che punta a riarmonizzare lavoro e natura. In una simile prospettiva, che implica una gigantesca riconversione, c’è un assoluto bisogno di sindacati autonomi e di riportare al centro del conflitto l’impiego stabile, la sua qualità complessiva, i diritti di un potere democratico diffuso che non si ferma alle soglie del mondo del lavoro.
Altro che accettare, come improvvidamente ha fatto anche la Cgil, quel collegamento in negativo tra riconversione e investimenti imposto da Marchionne e dalla Confindustria con l’accordo del 28 giugno! Una sottrazione di titolarietà nei confronti di un soggetto costituzionalmente preposto a organizzare il negoziato per le scelte produttive e per le condizioni di lavoro e costretto invece a subire l’arbitrio dell’impresa, accettare deroghe al contratto nazionale, fino a rinunciare agli strumenti di lotta che conferiscono potere ai lavoratori.
Partire dal territorio
Le “parole chiave” di seguito riportate alludono a concetti e, più precisamente, a fratture, che contraddistinguono un’epoca in cui le trasformazioni risultano spesso più profonde delle nostre radici culturali e denotano conflitti che rivelano l’affanno della stessa democrazia liberale che conosciamo, segnalata dalla pesante estromissione cittadini dalla partecipazione e dalle decisioni che li riguardano. Si tratta di autentici “cleavages”, la cui ricomposizione si situa per ora ancora lontana nel tempo e evoca semplicisticamente, ma efficacemente,  un mondo diverso e possibile.
Ho provato a stilare un elenco di termini attorno al quale concretamente si stanno sviluppando pratiche, lotte, cenni di riunificazione: pace e multiculturalità; beni comuni e stili di vita; riconversione produttiva e senso del lavoro; rappresentanza e autogoverno.
Se dovessi indicare una linea di percorso, sosterrei  – a fronte di una crisi di civiltà – che il territorio è il luogo da cui ripartire, la riappropriazione del lavoro e i diritti dei lavoratori sono il passaggio cruciale per sostenere il conflitto per un mondo diverso, l’abbandono del concetto di crescita costituisce la direzione univoca verso cui procedere, la ricostruzione della rappresentanza il nodo politico da risolvere.
Per tornare al tema della riconversione, non possiamo prescindere dal fatto che, nel complesso, il futuro dell’economia dell’Occidente sarà dominato dalla stagnazione. Il percorso che cerchiamo di individuare – e che chiamerei “riconversione-conversione ecologica”-  deve pertanto potersi adattare, nel bene e nel male, ad una situazione per la cui soluzione non abbiamo ancora “una cassetta degli attrezzi” adeguata, ma per cui disponiamo di una analisi ormai matura, che ho sommariamente tentato di abbozzare in precedenza.
La riconversione-conversione ecologica dovrà essere un fattore di condivisione di orientamenti, di collegamento operativo e di coinvolgimento diretto per gli attori dei prossimi conflitti sociali, per i promotori di buone pratiche, per i soggetti delle mille forme di resistenza molecolare alle forme in cui si esercita il dominio attuale del capitale, a partire dalla finanza.
Il fulcro della riconversione possibile è costituito dal passaggio da un modello di consumo fondato su un accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso.
In questa prospettiva il fattore determinante che si evidenzia è la territorializzazione dei processi, il collegamento più diretto possibile tra produzione e consumo, al fine di ricostituire legami sociali che non siano fondati esclusivamente sul mercato, bensì “governati” attraverso il conflitto e la ricostituzione di un controllo condiviso (una forma di autogoverno) sui processi economici e sociali. Non tutto ovviamente può o deve essere “riterritorializzato” e gli stessi poteri da contrastare hanno sovente dimensione extraterritoriale. Ma è molto importante cominciare con l’avvicinare quanto più possibile  la produzione di beni fisici ai luoghi del loro uso o del loro consumo.
Mi è chiaro che per le  produzioni industriali, i cicli richiedono spesso economie di scala che le collocano necessariamente al centro di “reti lunghe” di fornitura e di smercio che non possono essere ridimensionate oltre certi limiti. “Ciò non toglie che – come afferma Guido Viale – la conquista di nuove forme di controllo da parte delle comunità nel cui territorio questi impianti sono insediati (e che ne ricavano reddito e ne subiscono gli impatti sociali e ambientali) rientri a pieno titolo tra le finalità della conversione ecologica”.
Sono quattro le principali aree da porre sotto attenzione: le  reti energetiche decentrate e il passaggio alle fonti rinnovabili; la lotta al cambiamento climatico e l’accesso alla mobilità; la tutela e la manutenzione dei beni comuni (acqua, suolo, alimentazione, salubrità dell’aria);  la riqualificazione dell’assetto urbano e il non consumo di suolo. Gran parte di questi temi è già stata sviluppata in varie sedi. Si tratta di realizzarne una sintesi con una dimensione operativa, esplicitando le diversità di orientamenti e di valutazioni riscontrate, per renderla disponibile a una platea di “utenti” non specialistici e più ampia possibile.

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