La Carta.org un interessante articolo nel quale il filosofo ed economista esamina la crisi della città e ne argomenta la soluzione ; «La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico»
Il disastro urbano della società della crescita
Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di
logiche che sfuggono palesemente agli architetti ed agli urbanisti.
Abbiamo una quantità di architetti e urbanisti di ottima qualità
[compresi quelli del campo dell’abitare ecologico] ma questo non
impedisce il caos urbano e paesaggistico attuale nel quale il mondo è
rinchiuso. Il problema è che questa architettura è spesso molto
seducente quando si tratta di ville individuali o di palazzi
prestigiosi, ma è molto deludente nel’insieme. Fallisce «a fare città» e
sopratutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto
urbano, le mitage du paysage [tarmatizzazione del paessaggio], la
cementificazione del territorrio, la crescita dello squallore del quadro
della vita e la distruzione del’ambiente, per non parlare dello scacco
nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Tuttavia questi architetti e urbanisti ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi rimedio.
Siamo di fronte a una forma di schizofrenia. Questo disastro urbano è
stato constatato anche dal grande architetto portoghese, Alvaro Siza.
«La cosa più grave è la devastazione del territorio, lo scacco di questa
disciplina è l’uso della terra… Noi assistiamo alla fine di un ordine
delle cose che prefigura forse un’altra cosa, che noi non connosciamo
ancora. E, senza dubbio questa era inevitabile. Ma nell’immediato, la
qualità è emarginata e siamo di fronte a un disastro». Noi viviamo
ancora nella città produttivista, pensata e strutturata in funzione
del’automobile sotto forme che pretendono di essere razionali [basta
pensare alla città radiosa di Le Corbusier] con le sue segregazionì
degli spazi, sue zone industriali, i suoi quartieri residenziali senza
vita.
Si
è potuto parlare giustamente della distruzione delle città in tempo di
pace con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione
immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le
periferie, il proliferare dei centri commerciali, l’estensione delle
zone residenziali, l’emergere dei gratttacieli, la lacerazione dello
spazio dalle autostrade e la proliferazione dei non-luoghi [stazioni,
aeroporti, ipermercati, ecc.]. L’asfissia del traffico
automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla
«super» o «iper» modernità [parola che trovo più giusta di
«post»-modernità]. Questo è il trionfo della brutezza.
Per poter abozzare ciò che potrebbe essere l’urbanismo e l’architettura
in una sociétà della decrescita, bisogna capire prima, che cos’è la
società della decrescita e le suoi implicazioni architetetoniche e
urbanistiche, poi si potrà precisare a che cosa somiglierebbere la città
decrescente.
Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane
Che cosa è la decrescita?
La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di
sottolineare con forza la necessità di abbandonare il progetto insensato
dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Si può
definire la società di crescita come una società dominata da una
economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita
per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico,
della vita. Il cancro della Crescita [con la «C» maiuscola] non
distrugge soltanto la città, ma distrugge anche il senso dei luoghi
lacerando il territorio. Questo è l’esplosione del’urbano, secondo la
sociologa Tiziana Villani. Si tratta di un processo di
artificializzazione della vita. L’uomo pretende di ricreare il mondo
meglio di Dio e della Natura. Gli Ogm, le nanetecnologie, la clonazione,
l’allevamento industriale dei pesci, ecc. Ne sono una illustrazione.
L’esito finale sarebbe il cyberman, l’uomo artificiale. Ora, il
resultato più visibile è la transformazione del mondo reale, del mondo
nel quale siamo condannati a vivere, in discarica o pattumeria.
Il fallimento di Dubaï e della sua torre di ottocento metri inabitata,
constituisce un simbolo del fallimento del sogno americano e del suo
urbanismo. Il progetto della torre di un chilometro di altezza non sarà
probabilmente mai costruito. La citta produttivista appartiene al
passato, ma la distruzione del mondo si prosegue.
Ovviamenteil fine della società della decrescita non è un
capovolgimento caricaturale consistente nel predicare la decrescita per
la decrescita. Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa.
Si sa che il semplice rallentamento della crescita fa cadere le nostre
società nello sconforto a causa della disoccupazione e dell’abbandono
dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo
di qualità della vita. Si può ben immaginare quale catastrofe
costituirebbe un tasso di crescita negativo! Così come non c’è niente di
peggio che una società fondata sul lavoro senza lavoro, niente è peggio
di una società di sviluppo senza sviluppo. Rigorosamente parlando, più
una a-crescita [come si parla di a-teismo] che una de-crescita. Si
tratta precisamente dell’abbandono di una fede e di una religione:
quella dell’economia.
Il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una
società autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il
programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto «R»: rivalutare,
ridifinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre,
riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi
interdipendenti scatenano un circolo virtuoso di decrescita serena,
conviviale e sostenibile. Non si tratta di un programma, siamo al
livello di concezione. Il progetto della società della decrescita si
articola dunque intorno al circolo virtuoso delle otto «R». Si può dire
delle otto «R» che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque
che tre abbiano un ruolo più «strategico» delle altre: la
rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione
perché tiene in sé tutti gli comandamenti pratici della decrescita e la
rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro
di milioni di persone. Il problema della città e del territorio ormai
distrutti e tutto da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del
mondo lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del
locale. Il disastro urbano è al medesimo tempo un disastro rurale e
paesagistico. Ma, nell’ottica della costruzione di una serena società di
decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la
politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro
ancorarsi territoriale. La parola chiave è l’autonomia.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta
e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma
politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli
ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare
l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della
sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale,
oggi la si realizza solo partendo dai territori. Si tratta di
Riterritorializzare [Alberto Magnaghi], ritrovare un sito e ri-abitarlo.
Tuttavia, l’architettura ecoresponsabile o l’habitat bioclimatico non è
la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della
soluzione. La «città sostenibile» promossa dalla Carta d’Aalborg
[1994] è più una forma di modernizzazione ecologica del capitalismo
[greenwashing] che un vero rimedio al disastro del produttivismo. Gli ecoquartieri – quartiere Vauban a Friburgo [Germania], Houten [periferia di Utrecht, 40.000, in Olanda] e di Bedzed [Beddington zero energy development] nella città di Sutton
a sud di Londra – sono alla fine delle isole di sostenibilità dentro
un’mare di inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Il
fallimento e lo scacco clamroso delle «ecocittà » cinesi sono
sintomatiche. I rari progetti, lanciati con trombe e fanfare come
Chongming, sono nel’impasse. L’ecocittà di Dongtan à Chongming di
fronte a Shanghai è stata promossa con forza dal 2006-2008 per fare
vetrina ecologica all’Esposizione Universale. Il padrino del progetto è
stato eliminato nel 2008 per corruzione dopo di che il progetto, mal
conçepito, è stato abandonnato. Gli altri progetti [Huangbaiyu e
Tianjin] non vanno bene. L’economia ha vinto sull’ecologia. In questi
progetti si tratta sempre di abitare meglio ma non di cambiare il
rapporto con la natura, il paesaggio e con il consumismo. I tentativi
onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi
urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città
giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni [Geddes], Broadacre
city [Wright], città compatta, città distesa, ecc., che cercano una
nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati allo scacco
per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della
crescita.
Il funzionalismo formalizato nella Carta di Athene da Le Corbusier
[1943] che pretendeva di lottare contro il «disordine urbano» ha
generato finalamente un disordine più grande al prezzo di una esplosione
dell’impronta ecologica delle città. Secondo la profezia di
Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce
come nekropolis. Questo sembra essere il destino de l’iperpolis
virtuale, constituita dalla finanza e dai media globalizzati.
La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico.
È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa
necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della
polis, la città e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è
necessariamente secondo ripetto al progetto sociale, e il progetto
architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il «disastro»
urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti ne degli
urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità. Solo con
l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società di
decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.
A che cosa somiglierà la città decrescente?
La città decrescente dovrebbeessere una città con una
impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con
l’ecosistema [una bio-regione]. Piutosto di sognare la construzione di
città nuove, bisognerà imparare ad abitare le città in modo diverso,
questo al Nord come al Sud. La città consuma bassa entropia [energia,
risorse, cibo, ecc.] e esporta massiciamente alta entropia [rifiuti,
inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che consuma una
superficie «fantasma» molto superiore alla sua superficie reale.
[...]
Più la citta è estesa, «funzionale» [Le Corbusier], più questa impronta è
forte. Quello che non si vuole dire che bisogna verticalizzare le
città. Le torri sono dei divoratori di energia e non accrescono
veramente la densità. Bisogna sicuramente reinventare una città più
«compatta». L’habitat individuale, isolato, anche pensato ecologicamente
bene, è una eresia urbanistica, dal punto di vista della decrescita,
perchè ogni anno spariscono ettari di terre agricole sotto l’asfalto e
il cemento. La costruzione ragruppata e l’alloggiamento collettivo
dimostrano una efficacia energetica più alta.
Invece
delle megalopoli attuali, bisogna imaginare una città ecologica, fatta
di villagi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano una energia
rinovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroverano cosi il piacere di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere di abitare il mondo è quindi un imperativo.
Si può pensare a organizzare delle bioregioni urbani. La bioregione
urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e
locali dotati di una forta capacità di autosostenibilità, mira a ridurre
il consumo di energia e le diseconomie esterne [o esternalità negative,
cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i
costi alla collettività]. Politicamente, una bioregione potrebbe essere
concepita come una città di città, città di municipi, municipio di
municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o
moltipolare. Si potrebbe considerare un’area metropolitana come una
articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni
giustapposti, secondo la proposta di Murray Bookchin. «La città, che da
secoli ha funzionato secondo la formula del ‘luogo dove tutto si
scambia’ – scrive Yona Friedman – diventerà un’arca di Noè destinata ad
assicurare la sopravivvenza della specie nonostante il diluvio. Una
grande autonomia, una grande autarchia saranno dunque necessarie».
Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si
potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa
scelta e avranno abbandonato il produttivismo. Si ricercherà anche
l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle
società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa
dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un
potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia
rinnovabile.
«Saremo noi un giorno capaci – si chiede Christophe Laurens, architetto e
paesaggista – abitare poeticamente le torri degli uffici, gli stadi,
gli incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi
d’attrazione, tutto ciò quello che l’architetto olandese Rem Koolhaas
chiama i junkspace?». La risposta viene forse da Yona Friedman:
«Per trasformare il male in bene – dice – dovremo disfarci del
condizionamento che abbiamo subito». Si tratta di abitare diversamente
la stessa città. Pensare al Paris [Parigi/scommessa] della decrescita.
In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la cità
attuale dalla quale sarebbe stati eliminati la publicità, le auto e la
grande distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini
condivisi, le piste ciclabili, una gestione publica dei beni comuni
[acqua, servizi di base] e anche la coabitazione e le «botteghe di
quartiere». Una riconversione sarà necessaria ma anche una
certa disindustrialisazione. Il risultato di questa
disindustrializzazione realizzata, grazie a degli attrezzi soffisticati
ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre altrimenti. Anche se
la parte autoprodotta non è totale, essa è comunque importante.
Nel suo bel libro «Manifesto per la félicita. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere»
[Donzelli, 2010], Stefano Bartolini presenta così la città
«relazionale» che corrisponde quasi-esattamente al progetto della
decrescita: «La città relazionale è uno degli aspetti cruciali della mia
proposta di assegnare ai bambini una priorità ben maggiore di quella
attuale perché essi sono il paradigma dello stretto legame tra spazio e
mobilità nel determinare l’esperienza relazionale. I bambini devono
disporre di spazi pedonali di qualità vicino a casa e della possibilità
di arrivarci da soli. Gli elementi chiave di una città relazionale sono:
l’auto privato deve essere drasticamente limitata come misura
strutturale, per fare in modo che tutti i cittadini usino i trasporti
publici; la densità di popolazione deve essere alta; ci devono essere
molte piazze, parchi, isole pedonali di qualità, centri sportivi ecc.;
le aree pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di un lago, un
fiume, un ruscello, un canale; devono attraversare la città in modo da
formare una rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più possibile
marciapiedi spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà
publica deveno circondare la città, per costruirvi parchi e case16».
E per il Sud? Bisogna partire dalla realtà. Due miliardi di persone
vivono nei baraccopoli [bidonvilles] o delle favelas autoconstruite e
non accederanno mai alla città produttivista. La visione di Yona
Friedman dell’architettura e dell’urbanismo di sopravivvanza è
certamente più realista per il Sud, e inoltre in coerenza con la città
decrescente al Nord. La città povera è fatta di un insieme di
bidonvillages. «Il bidonvillage – dice Friedman – è la società anarchica
dei poveri e non ha che fare con una scelta ideologica o politica;
questo tipo di società si è costituito semplicemente perché l’esperienza
ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori probabilità
di sopravvivenza».
Finalmente, «La risposta dell’architettura di sopravivvenza ai problemi correnti sarebbe dunque: costuire meno, ma imparare ad abitare in altro modo;
sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i
nostri criteri di ‘commestibilità»; vivere nelle città in cui abitiamo,
ma organizzarci con minori spostamenti e vivere all’interno del nostro
villaggio urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più
frequentati da noi perché lontani».
In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della
salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di
crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o
esplicitamente imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita.
Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve
sottovalutare le possibilità di fare dei passi avanti nella politica a
questo livello. Si può menzionare: la Rete del nuovo municipio, la rete
delle città lenti [Slow cities], le città in transizione [Transition
towns], le Città post carbone, le numerose esperienze di città virtuose
come l’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo
sindaco André Aschieri19, le esperienze di Barjac20 e di Correns, tutte
collegate con iniziative più piccole [i Gruppi di acquisto solidale,
Amap ecc]. `
Il movimento delle città in transizione [Transition towns] è forse la
forma di costruzione dal basso che si avvicina di più a una società
della decrescita. Queste città secondo la carta della rete ricercano
l’autosufficienza energetica nella prospettiva della fine delle energie
fossili; più generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto,
preso in prestito dalla fisica, passendo attraverso l’ecologia
scientifica, può essere definito come la capacità di un’ecosistema di
resistere ai cambiamenti della sua ambiente21. Per esempio, come i
grandi agglomerati urbani potranno affrontare la fine del petrolio,
l‘aumento della temperatura, e tutte le catastrofe prevedibili? La
risposta dell’esperienza ecologica è che se la specializzazione consente
di migliorare le performanze in un’campo, rende più fragile la
resilienza dell’insieme. La diversità, al contrario, rinforza la
resistanza e le capacità di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la
policultura, l’agricultura di prossimità, piccole unità artigianali,
moltiplicare le sorgenti di energia rinovabile, tutto questo rinforza di
consequenza la resilienza.
Per concludere, si possono riprendere due citazioni di architetti
Enrico Frigerio [in Slow Architecture]: «L’architetto esteta, creatore
di forme, credo sia oggi quasi anacronistico».
Yona Friedman: «Dopo
tutto, stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può
anche essere la Festa».
In sintesi. La città decrescente, primo passo verso una società
di abbondanza frugale, preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la
base di tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico
all’economia, ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e
dunque l’integrazione] e anche la solidarietà, fortificherà la salute
dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione
dello stress. L’impatto sul paesaggio, anche se non fosse l’oggetto di
una politica specifica, sarà necessariamente positivo.
[Questo saggio è il testo della relazione di Serge Latouche al
meeting internazionale, il 19 e 20 maggio a Roma, dal titolo «The
architecture of well tempered environment - Un'armonia di strumenti
integrati», promosso dall'Unione internazionale degli architetti e
dall'Union internationale des architectes, architecture and renewable
energy sources].
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