Kabul, 17 settembre
Mentre si piangono i morti italiani, un chirurgo di Emergency a Kabul racconta che fine fanno i feriti afgani
Non si capisce il perché. O forse il perché è ben chiaro, ma è troppo ripugnante per crederci.
In una città come Kabul, di quattro milioni e passa di abitanti, durante eventi violenti come quello di oggi non esiste la minima possibilità di coordinare le risorse di chi fa attività sanitaria e si occupa di feriti civili, perché buona parte dei pazienti viene trasferita con mezzi militari nell'unico ospedale militare della città: le zone colpite vengono infatti cordonate da militari afgani e di ISAF e alle ambulanze civili non è nemmeno permesso entrare.
Ai rappresentanti dello stesso Ministero della Sanità afgano è stato impedito oggi di entrare nell'Ospedale militare di Kabul e, quindi, solo il ministero della Difesa ha potuto render conto del numero delle vittime civili
Dopo il tragico attentato di oggi, oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili. Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, lo si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio". Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito ma quanto sei utile alle indagini.
Il Centro chirurgico di Emergency a Kabul riceve quotidianamente decine di feriti che vengono da tutte le province vicine, ma quando una bomba esplode a 500 metri dall'ospedale, ai pazienti viene reso impossibile esercitare il proprio diritto ad essere curati: per motivi che chi fa attività sanitaria, come me, trova difficile comprendere.
Mentre si piangono i morti italiani, un chirurgo di Emergency a Kabul racconta che fine fanno i feriti afgani
Non si capisce il perché. O forse il perché è ben chiaro, ma è troppo ripugnante per crederci.
In una città come Kabul, di quattro milioni e passa di abitanti, durante eventi violenti come quello di oggi non esiste la minima possibilità di coordinare le risorse di chi fa attività sanitaria e si occupa di feriti civili, perché buona parte dei pazienti viene trasferita con mezzi militari nell'unico ospedale militare della città: le zone colpite vengono infatti cordonate da militari afgani e di ISAF e alle ambulanze civili non è nemmeno permesso entrare.
Ai rappresentanti dello stesso Ministero della Sanità afgano è stato impedito oggi di entrare nell'Ospedale militare di Kabul e, quindi, solo il ministero della Difesa ha potuto render conto del numero delle vittime civili
Dopo il tragico attentato di oggi, oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili. Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, lo si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio". Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito ma quanto sei utile alle indagini.
Il Centro chirurgico di Emergency a Kabul riceve quotidianamente decine di feriti che vengono da tutte le province vicine, ma quando una bomba esplode a 500 metri dall'ospedale, ai pazienti viene reso impossibile esercitare il proprio diritto ad essere curati: per motivi che chi fa attività sanitaria, come me, trova difficile comprendere.
Marco Garatti, chirurgo d'urgenza, lavora con Emergency da dieci anni, molti dei quali passati in Afghanistan. Attualmente è coordinatore medico del Centro chirurgico di Emergency a Kabul.
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