25 giu 2009

Terremoto dell’Aquila: evitare il funerale di un’opera d’arte

Giornali e tv hanno lanciato la grande notizia: “Domenica 21 Giugno riaperto il centro storico dell’Aquila”. Non è vero. Quel che è stato riaperto, e solo per 12 ore al giorno, e solo per gruppi di non più di 50 visitatori alla volta, è un breve tratto di Corso Federico II, una delle vie architettonicamente meno significative. Vi si affacciano 21 edifici, solo 3 dei quali risalenti a prima del Novecento.
La verità è che il centro storico dell’Aquila appare tuttora nel suo agghiacciante stato di coma irreversibile. Il terremoto del 6 Aprile, intorno alla cui inaudita entità effettiva è stata posta in essere una massiccia campagna di disinformazione, ha ucciso e ferito tantissime persone e ha devastato la cintura periferica dell’Aquila e decine di borghi dell’Abruzzo montano, suscitando nel Paese una larga quanto effimera eco emozionale. In pochi, però, hanno avuto modo di apprendere e comprendere che quel terremoto ha maciullato trecento ettari di città antica, causando la maggior distruzione di un centro storico mai verificatasi nel pianeta dopo il Terremoto di Lisbona del 1755.
Tutto ciò che non è rovinato a terra alle 3.32 del 6 Aprile è crollato o sta crollando per effetto delle scosse di non lieve entità che tuttora si susseguono incessantemente. Dei circa mille e trecento edifici medioevali, rinascimentali, barocchi e neoclassici sottoposti a vincolo monumentale, molte facciate stanno ancora in piedi ma dietro di loro restano solo montagne di macerie. Identica sorte per le migliaia di edifici minori, i quali costituiscono l’indispensabile tessuto connettivo delle emergenze monumentali. Tutte le centinaia di attività economiche, culturali e istituzionali del centro storico sono distrutte o hanno trovato precario e provvisorio rifugio altrove: università, teatri, gallerie d’arte, musei, biblioteche, alberghi, ristoranti, negozi, caffetterie, municipio, governo regionale, prefettura e quant’altro. Il centro storico è totalmente deserto, notte e giorno. Vi circolano soltanto Vigili del Fuoco e Carabinieri. I suoi varchi d’ingresso sono sigillati e presidiati dall’Esercito. Non c’è un solo precedente del genere, in Italia.
Tutte le città, prima o poi, diventano opere d’arte. In luogo di minuti e ore, i loro orologi collezionano anni e secoli, ma anch’esse sono entità viventi. Interagiscono con la natura e con gli uomini. Si alimentano e crescono per intreccio di addizioni sottrazioni e trasformazioni. Affiorano da orditi raziocinanti e razionalizzatori, che vestono di ritmo e armonia il dispiegarsi di necessità e fantasia creatrici. Non diversamente da ogni autentica opera d’arte, anche le città sono figlie della propria forma. Questa, però, non è data una volta per tutte, come nelle arti figurative, ma è in continuo mutamento, a somiglianza delle arti sceniche, anch’esse tributarie di un autore del tutto peculiare, collettivo e diacronico, imposto dall’esigenza che la forma sia specchio e servitore il più possibile fedele del divenire delle comunità di cui ciascuna città è espressione.
Diverso è il caso dell’Aquila, sùbito nata opera d’arte, non pervenuta a esserlo attraverso il volgere di secoli. Disegnata a tavolino prima di nascere, è stata ascritta dagli urbanisti tra gli esempi piú illustri di quella falsamente oscura stagione che fu il Medioevo. A metà del Duecento, i popolani dei villaggi federatisi per fondarla ne vollero fare una smisurata mappa vivente, che restituisse su scala urbana il medesimo assetto del loro territorio. Assegnarono a ciascuna comunità un lotto destinato a ospitare la replica del proprio villaggio e dislocarono i diversi lotti all’interno della cinta fortificata riproporzionando le ampiezze ma ripetendo le giaciture originarie di ciascuno dei villaggi fondatori.
Nacque così la città delle tutt’altro che leggendarie 99 piazze, 99 chiese e 99 fontane. Fu una città-territorio, avendo non reciso ma ottimizzato il nesso socio-economico tra gli inurbati e i rimasti extra moenia. Fu pure una città-giardino, ogni casa avendo accanto il proprio orto, come da sempre ne disponevano le abitazioni rurali. Fu pure, ovviamente, una città-città, essendovi stabiliti anche gli spazi per il municipio, la cattedrale, gli opifici, le botteghe, le dimore di prestigio e gli altri fabbisogni della nuova comunità unificata. E fu sùbito una città-opera-d’arte, perché prima ancora della plurisecolare fioritura di edifici pregiati, ebbe in dote una forma ben pensata e definita, accurata, attenta a non violentare l’orografia ma anzi bramosa di lasciarsene suggerire il modo migliore per ubicare e orientare i vuoti e i pieni con cui dar volto e funzione all’abitato.
Molte cose son venute cambiando nel corso dei secoli. Tuttavia, fatti salvi pochi e ben circoscritti episodi, per altro in gran parte migliorativi, l’opera d’arte originaria, tetragona come Cesare davanti le lame assassine, ha attraversato indenne il fervore del tempo e degli uomini, ivi compresi i quasi integrali rifacimenti con cui la città sopravvisse ai due terrificanti terremoti del 1461 e 1703: strade, piazze e volumetrie degli edifici sono rimaste sostanzialmente quelle di metà Duecento. Lo sono tuttora, ma L’Aquila in quanto città-opera-d’arte, adesso, rischia di diventare solo poco piú d’un ricordo.
Quest’opera d’arte è un bene di tutta l’umanità e la sua ricostituzione non rappresenta un’eventuale opera benefica in favore degli aquilani. È un oltraggio alla verità la copertina del settimanale “Panorama” del 16 Aprile, che titolava “Aiutiamoli!”. Gli aquilani non hanno bisogno di elemosine, ma di giustizia, della stessa equa riparazione riconosciuta a suo tempo all’Umbria, alle Marche e al Friuli. In nessun Paese civile la ricostituzione di quest’opera d’arte verrebbe considerata meno che urgente, indifferibile e da farsi “costi quel che costi”. Per l’Italia, non è cosí, almeno finora, sopra tutto perché l’effettiva magnitudo del sisma del 6 Aprile e la reale entità della distruzione da esso arrecata nel centro storico dell’Aquila non sono nella conoscenza degli italiani.
Indubbiamente, la ricostituzione di quanto s’è perduto e di quanto ancora si sta perdendo richiede anni e anni di lavoro e un’idea-progetto d’alto spessore tecnico, artistico e culturale. Altrettanto indubbiamente, occorrono decine e decine di miliardi di euro. Il tempo e il denaro si possono reperire, sebbene non facilmente. Mai si troveranno, però, se l’opinione pubblica, non solo quella nazionale, non viene messa nella condizione di rendersi conto di cosa sia realmente in gioco e di quanto sia importante che la tragedia del 6 Aprile non si trasformi anche nel funerale di quell’opera d’arte che il centro storico dell’Aquila era e che sarebbe giusto potesse tornare ad essere.


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Errico Centofanti, giornalista e scrittore

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