Nei giorni scorsi la Stampa ha riportato una notizia curiosa
riprendendo un articolo dell’Independent in cui si annunciava la
decisione di Xavier Rolet, presidente del London Stock Exchange, di
impiantare due alveari sul tetto dell’edificio nel cuore della City.
Tralasciando la passione per l’apicultura di Rolet, il tema preoccupante
della moria crescente di api nel pianeta, il valore economico
incrementale del miele, trovo significativo che alcuni monumenti
contemporanei come appunto la LSE, ma anche la stazione di St.Pancras e
la Tate Modern sempre a Londra, la Banca Nomura a Tokyo e il Grand
Palais a Parigi, si stiamo attrezzando offrendo i propri tetti alle
celle di milioni di api operaie.
Questa notizia, come altre che popolano i media sotto la voce
“curiosità e stranezze”, a volte non sono che spie impercettibili che
indicano una trasformazione profonda che andrà a incidere sempre di più
sulle nostre metropoli riportandoci ad un immaginario inaspettato,
quasi medioevale: il ritorno deciso e sempre più visibile
dell’agricoltura e di una natura non addomesticata nelle città.
Alveari sui tetti, orti urbani negli spazi pubblici e sulle terrazze
comuni dei grandi palazzi residenziali, campi produttivi nei lotti
liberi non costruiti all’interno della città, piccoli allevamenti
animali, sono alcuni degli elementi che popoleranno le nostre metropoli
modificandone la percezione e l’immagine.
Non si tratta di una nuova moda, ma di una pressante e crescente
esigenza economica oltre che sociale che modifica inevitabilmente i
luoghi che viviamo. La pratica del chilometro zero deriva dalla volontà
di evitare sprechi e di controllare la qualità dei prodotti, ma
risponderà sempre di più all’esigenza delle singole comunità di produrre
alimenti stagionali rispondendo a quella che sarà una pressante
diminuzione dei generi alimentari e un conseguente aumento dei costi.
Uno dei grandi temi e problemi dei prossimi decenni sarà sicuramente
l’individuazione di nuove strategie di produzione alimentare per una
massa crescente di popolazione, ed è interessante notare come in ogni
grande metropoli mondiale (da New York alla megalopoli asiatica) si
stiano sviluppando strategie dal basso per aggredire il problema e
progettare soluzioni adeguate.
E una delle conseguenze più interessanti di questo processo sarà la
metamorfosi degli spazi comunitari sulla base di un diverso patto
sociale solidale, che modificherà inevitabilmente l’immagine diffusa
delle nostre città. Un’azione che rimescolerà le carte della nostra vita
minuta in una relazione inedita con la natura in città tutta da
sperimentare e vivere. E tutto questo cosa c’entra con l’architettura?
Non dimentichiamoci che solo il 10 per cento del costruito nel mondo è a
malapena firmato da progettisti e che, spesso, incide di più un’azione
diffusa, anonima di questo tipo per modificare i luoghi che viviamo
quotidianamente che un grande progetto d’archistar.
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