Scritto da Uomo Zappiens
Giovedì 08 Dicembre 2011
di Uomo Zappiens – Megachip.
Dal
2000 al 2010 hanno chiuso i battenti il 32,2 per cento delle aziende
agricole italiane. Lo dicono i dati provvisori del 6° Censimento
dell’Istat (http://censimentoagricoltura.istat.it) pubblicati pochi mesi fa. Queste le cifre: alla data del 24 ottobre 2010 in Italia risultano attive 1.630.420 aziende agricole e zootecniche di cui 209.996 con allevamento di bestiame destinato alla vendita: il 32,3 per cento in meno, appunto, dell’anno 2000. E’
il risultato di un processo pluriennale di concentrazione dei terreni
agricoli come effetto delle politiche comunitarie e, anche,
dell’andamento del mercato.
Infatti
la dimensione media aziendale è passata, in un decennio, da 5,5 ettari
di Superficie Agricola Utilizzata (SAU) per azienda a 7,9 ettari
(+44,4%) sebbene la Superficie Aziendale Totale (SAT) sia diminuita
dell’8% e la SAU in termini assoluti del 2,3%.
Siamo di fronte a una vera e propria catastrofe. Questa catastrofe è accolta dal silenzio generale e le grida degli agricoltori sono sepolte dall’indifferenza. Perché?
Ma perché il dato è considerato positivo. Questo infatti è ciò che doveva avvenire
secondo la teoria della modernizzazione agricola e di superamento delle
forme considerate arretrate di produzione, connessa a quella dello
sviluppo misurato in termini di crescita economica. Teoria utilizzata
come fondamento per le politiche agrarie nella seconda metà del
novecento e che è diventata l'asse portante delle politiche agricole
dell'Unione Europea.
Ce lo spiega Jan Douwe Van der Ploeg
titolare della cattedra di sociologia rurale presso l’Università di
Wageningen in Olanda e punto di riferimento per gli studiosi di politica
agraria europei.
La
teoria della modernizzazione in agricoltura -ci spiega lo studioso- ha
costruito un modello di azienda agricola moderna o convenzionale, quella
che la politica e la rappresentanza si sono date come obiettivo. Tale
azienda è un’impresa gestita secondo regole comuni e che segue un
modello produttivo standardizzato, con l’obiettivo di produrre quantità e
non qualità.
I
fattori produttivi vengono dall’esterno, cioè non sono generati
dall’azienda o dal territorio (fertilizzanti, sementi, pesticidi,
trattori ecc.);i prodotti devono essere trasformati secondo logica
industriale e non artigianale e vengono inseriti in filiere lunghe
finendo anche a migliaia di km. Il valore aggiunto che si accumula negli
spostamenti viene sottratto all’agricoltore e drenato da altri settori e
dagli intermediari.
L’Azienda
inoltre è costretta all’interno di un quadro normativo stabilito dallo
Stato e/o dalla UE. L’organismo pubblico legittima questo sistema e le
politiche sono orientate a difenderlo.
La macchina
ideologico-giuridico-istituzionale è interamente impegnata a eliminare
ogni possibile alternativa a questo disegno.
Per
questo i dati provvisori del Censimento non sono stati accolti da un
giusto allarme e le grida di dolore degli agricoltori sono state coperte
dal silenzio mediatico.
Perché?
Ma perché ci stiamo modernizzando. Perché l’Italia si mette al passo
con l’Europa per quanto riguarda la dimensione delle aziende. Tutto
bene? Non proprio. Perché, come ci ricorda Van Der Ploeg, questo modello di azienda si è rivelato insostenibile.
Innanzitutto a livello economico. Esiste infatti, rispetto ai primi anni della modernizzazione, una tendenziale caduta del reddito degli agricoltori
che vede restringere pericolosamente la forbice tra costi e ricavi.
Questo è motivo della chiusura di tante aziende ma anche della vita
difficile delle molte altre che lottano per rimanere sul mercato.
In secondo luogo l’agricoltore non è più autonomo, perde le sue abilità e il suo sapere, non può più decidere cosa coltivare e dove vendere e diventa un puro esecutore del sistema tecnologico-industriale,
costretto oltretutto a passare molte ore del suo lavoro in adempimenti
burocratici. E’ stato espropriato delle proprie capacità gestionali.
Ridotto ad essere un semplice fornitore di materia prima.
Infine l’insostenibilità ambientale:
la terra, l’acqua, l’aria sono profondamente inquinate dal sistema di
produzione, trasformazione e commercializzazione agricola. L’agricoltura industriale è responsabile del 30 per cento dei gas serra sul pianeta.
L’impoverimento dei suoli a causa dell’uso intensivo di fertilizzanti
chimici, invece dell’utilizzo dei metodi che per millenni hanno
garantito la fertilità dei suoli come la rotazione e la multicultura,
contribuisce, impermeabilizzando i terreni, anche alle inondazioni
continue a cui assistiamo. Gli effetti esterni dell’industrializzazione
dell’agricoltura sono gravissimi sull’ambiente e sulla salute dei
consumatori.
Van der Ploeg analizza però soprattutto gli effetti interni concentrandosi sulla progressiva espropriazione della capacità gestionale dell’agricoltore, la rottura dell’unità tra produzione e riproduzione dei fattori naturali (acqua, terra, piante, animali) e il progressivo sganciamento dell’agricoltura dal contesto locale, inteso come ecosistema e come prodotto di rapporti sociali.
Si
determina, ci spiega, una standardizzazione dei processi produttivi
sempre più dipendenti da prescrizioni esterne. L’agricoltore viene
espropriato anche della sua attitudine a sperimentare per migliorare le
condizioni produttive. Si genera una figura di agricoltore virtuale
capace di eseguire correttamente un complesso di operazioni prescritte
dall’esterno e trasmesse attraverso un apparato di divulgazione e
assistenza tecnica.
L’innovazione
tecnologica diffusa dall’apparato di divulgazione era considerata
condizione essenziale per il superamento delle forme arretrate di
produzione. Le resistenze al cambiamento, chiaramente visibili, da
parte degli agricoltori erano interpretate dai teorici della
modernizzazione come prodotto di “arretratezza culturale” anche se
invece si trattava di comportamenti logici basati su una corretta
analisi del rapporto tra costi e benefici.
Van der Ploeg interpreta il fenomeno dell’insostenibilità economica come una crisi strutturale della modernizzazione agricola e fornisce come risposta la rivalutazione del modello di produzione contadino.
Pur
inserito nel quadro di un sistema regolato dal mercato capitalistico,
infatti, il modello di produzione contadino garantisce un basso grado di
mercificazione, un alto grado di autosufficienza, la passione per il
lavoro e la cura delle risorse; la conoscenza localmente trasmessa,
garantisce la relazione tra natura (viva e non morta questa volta) e
società, la padronanza del mestiere e un rapporto di continuità tra
passato presente e futuro.
Il
modello contadino è basato sulla necessità non solo di realizzare il
prodotto ma anche di riprodurre le risorse produttive (acqua, terra,
semi). Il suolo non viene impoverito. La natura non è nemica da dominare
e da cui si può prescindere.
La
modernizzazione in 50-60 anni avrebbe dovuto far scomparire i
contadini. Ma le cose non sono andate come previsto. Si è manifestata
infatti una forte resistenza anche in Europa e sono molti i luoghi dove
si riafferma un modo di produzione alternativo.
I paesi del sud del mondo sono quelli che hanno la guida di questo processo.
Il movimento Sem terra in Brasile (anni 80) nato anche grazie al sostegno della chiesa
cattolica, ha consentito il ritorno alla terra di milioni di persone che
vivevano nelle periferie urbane e nelle favelas.
[.....]
Le
pratiche innovative che gli agricoltori già mettono in atto per
assicurare nuove fonti di reddito vanno dalla filiera corta alla
trasformazione dei prodotti in azienda all’agricoltura biologica,
agriturismo, agricoltura sociale ed altro.
Iniziative come Terra Madre (Piemonte dal 2004) e Terra Futura (Toscana) sono dei grandi momenti di confronto globale su questi temi.
L’Italia
ha i migliori prodotti agroalimentari del mondo e una varietà
enormemente superiore a molte altre parti del pianeta. La pretesa di
devastare la biodiversità ma anche la diversità culturale è una tendenza
che dovrebbe trovare un muro invalicabile a difesa della nostra
elevatissima cultura alimentare. Sarebbe ora di manifestare l’amore per
questo paese in modo concreto difendendo la bellezza del paesaggio
rurale, la preziosità dei prodotti alimentari, la varietà delle culture e
praticando, da subito, un modello di agricoltura sostenibile.
Molta gente lo fa da anni, senza sostegno, senza aiuto, senza un supporto politico e a fronte di una enorme pressione contraria.
E’
urgente mettersi alla testa di questo nuovo modo di pensare ed è ancora
più urgente superare la rimozione dell’anima rurale di questo paese
facendo rientrare a pieno titolo l’agricoltura nelle priorità politiche
del futuro.